La seguente intervista si è svolta presso l’Eurosky tower di Roma
Anna Rita EmiliFranco Purini è uno dei più importanti architetti di fama internazionale per il suo contributo alla dimensione teorica e progettuale dell’architettura. In che ambito nasce la sua ricerca architettonica e quanto l’aspetto visionario di Sacripanti ha influenzato la sua architettura?
Franco Purini La mia formazione avviene incrociando tre aspetti: il primo è un riferimento al razionalismo italiano degli anni ‘30 in particolare alle figure di Adalberto Libera e Giuseppe Terragni. Poi, un'attenzione molto sincera, non soltanto culturale ma anche umana, alla minimal art e specialmente all'opera di Donald Judd di cui ho apprezzato lo sforzo eroico di confrontarsi con la complessità del mondo contemporaneo riuscendo ad arrivare alla semplicità della verità. Ovviamente una sua verità personale che ho condiviso come del resto molte altre operazioni dell’arte, altrettanto legittime, in questo caso l’arte plastica. Mi ha sempre interessato questa capacità, diciamo “spirituale”, di pervenire al senso delle cose, alla loro “ragione”. Il terzo aspetto è la grammatica generativa di Noam Chomsky, il teorico del linguaggio, che ho studiato da giovane, quando avevo appunto 24 -25 anni, e in Italia comparivano le prime traduzioni dei suoi libri; mi affascinava la sua teoria consistente nel credere, nell'affermare, che il linguaggio non è qualcosa che si apprende ma è una funzione della mente. Quindi il linguaggio è dentro di noi in quanto esseri umani e questo che cosa produce? Produce il fatto che una volta che noi inneschiamo una processualità linguistica, questa procede da sola in una specie di duello tra la capacità autogenerativa della forma, come nel caso dell’architettura, delle arti plastiche e della pittura, e la necessità di dare un senso a questa seminaturalità dei segni che si incalzano e si celano l’uno dall’altro in un moto incessante. Quindi, nel 1968, dall’unione di questi tre riferimenti, con una tavola che è un po' un manifesto di questa posizione ancora oggi, è nata la mia architettura. Ovviamente le scelte che si fanno durante l’arco della vita, anche se sono coerenti con quella prima visione, attraversano periodi diversi subiscono delle torsioni, delle vibrazioni, a seconda di quello che sta succedendo.
Anna Rita EmiliIn un'intervista del 1998 lei afferma che nella nuova dimensione c'era tutta l’ansietà per il futuro. Durante i concorsi svolti in quel decennio sul tema del centro direzionale, era presente l'idea iperbolica del costruito che, in fondo, materializzava la paura per la Città Futura. Rispetto a questa affermazione come colloca il suo progetto della “città compatta” del ’66?
Franco Purini Il progetto della città compatta, che in questi giorni è casualmente in mostra al MAXXI nella esposizione dei materiali della loro collezione, era proprio il tentativo di confrontarsi con la problematica della città del domani. Era il periodo della rinascita delle avanguardie - quello degli anni ’60 - che ha interessato la cultura mondiale, europea e anche italiana. Roma è stata uno dei centri di questa rinascita e io, sotto l'influenza di Sacripanti presso il quale lavoravo in quegli anni, ho tentato, assieme a Laura Thermes, di dare una struttura e un'immagine a questa volontà di pensare la città del domani. In quegli anni erano stati appena inventati i container e noi prendemmo spunto proprio da questi. Però sotto l'influenza di Khan, perché per un anno ho sentito un'influenza forte di Louis Kahn …. è durata esattamente un anno, trasformammo questi container, che erano allora come sono adesso 3 x 3 per 6 o 12 metri, in cubi sempre di lamiera di 6 x 6 con una serie di bucature che permettevano di costruire un tessuto compatto in acciaio che poteva essere utilizzato in vari modi e collegato a tutti i livelli da una rete di percorsi. C'è una tavola, a cui sono molto legato, che rappresenta proprio uno spazio diciamo a-direzionale, teoricamente infinito, dentro il quale era possibile praticare scavi, lasciare delle lacune, in modo tale che la luce penetrasse all'interno. Quindi era uno spazio poteremmo dire anche neopiranesiano. Che cosa veniva fuori montandoli assieme? Quello è un progetto a cui ovviamente tengo molto perché ci sono una serie di idee sulla città che saranno sviluppate nei decenni successivi. Anzi dirò un'altra cosa: ci sono anche temi che qualche anno dopo, tre anni dopo, saranno affrontati dall'avanguardia radicale fiorentina. Dal Superstudio e da Archizoom. Per esempio il tema del tessuto continuo di non stop city è già in quella tavola se si confrontano i due elaborati. Ovviamente era un momento, che è durato fino al ’69 ’70 in cui a Roma, Firenze, Milano, si stava cercando una nuova immagine della città.
Anna Rita EmiliVorrei soffermarmi ancora sul concetto di nuova dimensione che, negli anni ’60, sottintendeva un duplice aspetto caratterizzato dal binomio avanguardia-sperimentalismo. L’avanguardia era più legata all'aspetto teorico, alla modificazione del linguaggio, fino ad arrivare all’utopia, mentre lo sperimentalismo aveva a che fare più con una attinenza al territorio. Possiamo considerare la sua ricerca architettonica più avanguardia o più sperimentalismo?
Franco Purini Ma i due termini non sono in contraddizione, anzi non c'è avanguardia senza sperimentalismo, addirittura potremmo dire che l'avanguardia è la forma più avanzata di sperimentazione. Ovviamente capisco perché lei le ha messe in contrasto, perché nella avanguardia c'è l'idea di un lavoro in progress che subisce anche gli incidenti della sperimentazione; può incontrare alcuni ostacoli che obbligano a cambiare strada. Laddove come avanguardia noi intendiamo di solito una visione del mondo anche molto astratta, molto letteraria, che poi si invera in un linguaggio. Per questo posso accettare che ci sia la distinzione che lei introduce ma direi che, la cosa più interessante, è proprio l'aspetto determinato dell'avanguardia, da un pensiero che radicalmente vuole cambiare l’immagine che si ha di un certo aspetto del mondo e che investe sia la città, sia la vita in comune, sia la sostanza architettonica degli edifici.
Ludovico RomagniL’avanguardia è una condizione paradossale. Per esistere si basa sia sulla condizione di osservazione, fortemente legata alla contemporaneità, sia di visione, in anticipo sui tempi. Deve mantenere quindi un equilibrio un po' instabile tra i problemi attuali e le condizioni future. Ma che cosa succede quando l'avanguardia va “fuori sinc”, quando alcune cose sono annunciate in maniera troppo prematura e altre invece sono annunciate in ritardo. Nel secolo scorso le prime avanguardie probabilmente non sono state comprese perché troppo sbilanciate in avanti mentre le seconde avanguardie erano già quasi in ritardo.
Franco Purini Diciamo, e la cosa è abbastanza oggettivamente dimostrabile nell’esperienza del ‘900, che le avanguardie non sono mai riuscite a dare un seguito alle loro visioni nei tempi previsti. Però sappiamo anche che alla fine quello che le avanguardie hanno ipotizzato si è realizzato. Ci sono voluti circa ottanta anni perché le immagini di Finsterlin diventassero, attraverso Gehry, architettura costruita. E così come ci sono voluti più di due o tre decenni per vedere le immagini futuriste entrare in profondità nella cultura urbana diventando quasi visioni normalizzate, accettate anche dal pubblico più vasto. Quindi potremmo dire che le visioni delle avanguardie non sono state sterili, alcune idee sono spuntate fuori dopo sessanta anni, altre cominciano soltanto adesso ad essere comprese nella loro realtà. Per esempio, c'era una frase di Sant’Elia che è stata inclusa nel Il Manifesto dell’architettura futurista (la frase però pare che non sia stata scritta da Sant’Elia bensì da Marinetti): “ogni generazione costruirà la propria casa”. Questa idea effimera dell’abitare si sta facendo strada proprio in questi anni. Anzi, qualche anno fa, quando ci fu un improvviso innamoramento da parte di molti teorici verso la città per il nomadismo, vale a dire abbandonare l’idea di casa come qualcosa di stabile e di duraturo verso un modo di abitare migrante, che ogni volta muta, quell’idea, in definitiva, ha trovato un riscontro. Quindi l'avanguardia non è stata una grande macchina celibe che ha prodotto cose solo autoreferenziali, ma sicuramente ha dato impulso a una ricerca che nei tempi ha avuto risultati importanti. D'altra parte, se diciamo “avanguardia”, che è un termine militare e quindi cela un’idea bellica, implichiamo la “retroguardia”. L’avanguardia è tale perché dietro c’è qualcuno che segue; questa dialettica fra chi guarda in avanti e la massa che segue, e certe volte per motivi inerziali rallenta, è inevitabile. E’ abbastanza interessante osservare tutta la complessa vicenda del ‘900 in architettura; tra l'altro bisogna riconoscere che è ancora in gran parte da scrivere nei suoi veri termini. La storiografia dell'architettura moderna innanzitutto è troppo precoce, quindi in realtà non si tratta di storia ma di una sorta di cronaca propagandistica e ideologica. La prima storia dell'architettura moderna esce se non sbaglio nel ’43. Il Manifesto del partito comunista è del ’14, solo trenta anni dopo, quindi non si può parlare ancora di storia. Eppure tutti coloro che hanno scritto riepiloghi dell’architettura moderna li hanno intitolati “storia”. Zevi nel 1950, poi Benevolo. Quindi soffriamo della mancanza di un vero punto di vista storico su quello che è successo un secolo fa. Saranno i giovani dell'ultima generazione che riusciranno a scrivere le prime storie, probabilmente non tanto oggettive ma corrispondenti ai fatti, di cui potremmo disporre. Un precedente importante è stata la storia di Frampton che indubbiamente si è distaccato dallo stereotipo ideologista e ha cercato di rivedere i fenomeni nella loro varietà. Con una differenza però: allineandoli, per così dire, a un livello medio che non fa vedere bene le differenze. Io dico sempre che una bella storia assomiglia un po' a quello che troviamo in un supermercato: entriamo e troviamo gli scaffali con diversi prodotti; lì c’e il futurismo, il costruttivismo il razionalismo, pure il postmodernismo tutti messi in questa condizione di consumo culturale elevato, ma sempre consumo. Cioè è una storia dell’architettura molto utile agli studenti ma che ha perso l’idea secondo la quale, nella storia propagandista, c’era la finalità di aiutare a cercare un nostro punto di vista attraverso l'analisi di quello che c'è già stato.
Ludovico RomagniComunicare attraverso il disegno un pensiero libero e non necessariamente reale, scollegato dalla realtà, una visione destinata a rimanere visione, ha rappresentato per molti degli architetti della sua generazione un percorso parallelo da affiancare a quello della rappresentazione reale e scientifica del progetto. Si è cercato di sperimentare ed esplorare forme culturali e figurative inedite dove gli ambiti di ricerca progettuali potessero raccontare da un lato l’estremizzazione delle condizioni attuali e dall’altro le sue potenzialità future. Quasi sempre queste rappresentazioni hanno nascosto una posizione di dissenso e un rifiuto dello stato delle cose cui hanno opposto l’Utopia come concetto rivoluzionario e alternativo. Quali sono a suo avviso le qualità del disegno come strumento critico, politico, ideale per manifestare questi aspetti?
Franco Purini Be’ il disegno è uno degli strumenti che l’architetto ha a disposizione peraffermare la propria presenza attiva. Nel mondo ci sono vari strumenti: c'è la riflessione teorica quindi la scrittura, c'è l'intervento nel concreto della città costruendo architettura e c’è l’uso dell’immagine, della rappresentazione grafica e della rappresentazione architettonica come formidabile spazio nel quale anticipare ciò che si desidera che avvenga. Quindi nel disegno c'è un aspetto critico, un aspetto visionario e un aspetto anche conoscitivo. Spesso si accusa la rappresentazione di essere tale come se fosse al posto di qualcosa di concreto, una cosa che non c'è. Si è vero, quando faccio il disegno di una città, per esempio che ho inventato, quella città non c'è ancora, ma quel disegno è reale e molto concreto nella sua capacità di veicolare tensioni, prospettive, soluzioni, spazi immaginifici. Noi potremmo fare una magnifica storia dell'architettura moderna solo a partire dai disegni; altrimenti cosa dovremmo dire della città per tre milioni di abitanti di Le Courbusier? che non è nulla? non è reale? è una rappresentazione? E’ un manifesto che senz’altro è stato più determinante, per la concretezza della ricerca moderna, di quanto lo sia stata l’unità di abitazione che, seppur riprodotta alcune volte, non ha la carica totalizzante dell'utopia urbana. Così come potremo parlare dei progetti di Hilberseimer, nessuno dei quali pienamente realizzato, oppure delle utopie italiane degli anni ’60, dei centri direzionali, delle visioni della città di personalità come Aldo Rossi che sono sostanzialmente rimaste sulla carta. Aldo Rossi ha costruito edifici ma non ho avuto la possibilità di costruire un pezzo di quella città. Per cui io tranquillamente riconosco che ci sono anche modi alternativi di comunicare; ad esempio, la scrittura teorica può benissimo essere alternativa al disegno; il disegno però contiene qualcosa di più proprio perché è uno strumento che rappresenta per analogia le cose. Cioè, se io voglio parlare della città, disegno la città e la riconosco subito; anche chi non è architetto riconosce che cosa c'è dietro quel disegno che sto proponendo. Mi ricordo certi disegni o modelli di Gropius, risalenti al periodo in cui insegnava ad Harvard, che probabilmente rappresentano le cose più coraggiose che ha pensato dopo l’esperienza degli anni ’20. Il periodo americano è stato un periodo molto fecondo per lui come docente ma, come architetto, non ha fatto cose particolarmente significative tranne alcune elaborazioni (fatte nell’ambito del suo insegnamento) che rappresentano riferimenti ancora attuali.
Ludovico RomagniL'architettura ha una sua specificità disciplinare molto forte; Massimo Ilardi direbbe che l’architettura costruisce relazioni tra una visione di società, l’assetto del territorio e la forma architettonica. Vema, il suo progetto presentato alla Biennale d’Architettura di Venezia del 2006, rappresentava un po' questa visione di città utopica: l’aspetto sociale, il luogo di incontro della nuova generazione creativa, l’organizzazione a griglia del territorio, la forma delle architetture?
Franco Purini La sfida di quel progetto consisteva nel tentativo di far comprendere al pubblico (venuto numerosissimo al padiglione italiano del 2006) che ciò che si considerava allora un difetto, vale a dire la volontà dei venti gruppi di giovani architetti che ho invitato, di parlare ciascuno il proprio linguaggio, rappresentava invece una grande opportunità. Il tentativo era quello di creare una sorta di comunità nuova in cui proprio la diversità era l’elemento che costituiva il fattore di novità. La diversità dei vari lessici messi in atto non toglieva all’insieme la possibilità di prefigurare uno spazio urbano complesso e in qualche modo capace di dialogare con le sue diverse espressioni. Una vera e propria sfida, erano gli anni in cui si constatava come il progetto urbano fosse ormai esautorato, come l’architettura fosse architettura di pezzi speciali che non si ricollegavano a un disegno complessivo. E’ stato proprio un tentativo che, anche in quella condizione così difficile, in quella sorta di disgregazione liquida (diremmo con Baumann) del linguaggio architettonico, si poteva trovare un’unità di intervento in cui certi temi risuonassero all’interno di tutti i lavori presentati. Io sono molto contento di aver fatto quell'esperienza che oggi verrebbe chiamata esperienza sulla Smart City; il termine Smart city però non mi piace affatto perché contiene qualcosa che non ha a che fare con l'intelligenza quanto con la scaltrezza, con la versatilità, è qualcosa di molto diverso dall'intelligenza. L'intelligenza è, fra l’altro, un attributo di Minerva mentre la scaltrezza, la versatilità, è un attributo di Mercurio; quindi dietro la Smart City c’è una coloritura molto forte di tipo commerciale e questo, secondo me, deve suscitarci qualche dubbio; la città è più profonda rispetto agli aspetti che ci facilitano nello scambio commerciale, tutto qua.
Ludovico RomagniI confini tra le varie forme artistiche si sono molto ridotto e all’architettura è stata erosa gran parte della sua specificità. Non c'è più una distinzione tra le forme artistiche accumunate dal denominatore comune dell’estetizzazione diffusa. Secondo lei l’architettura deve ritrovare una sua identità disciplinare e come può farlo?
Franco Purini Io sono molto interessato a tutto ciò che sta avvenendo, sono apertissimo, mi piace anche la confusione dei linguaggi, in qualche modo persino mi esalta. Però ci sono aspetti fondamentali che non dimentico mai in base ai quali l’architettura può essere considerata sostanzialmente in due modi distinti: o come uno strumento per rendersi conto e rendere conto dei flussi che attraversano la società e le modificazioni in atto o, al contrario, come qualcosa che si oppone a questa processualità e che intende rappresentare ciò che di permanente esiste nella vita degli esseri umani. Gli esseri umani che cosa vogliono poi sostanzialmente? Vogliono vivere una vita in cui realizzano le proprie aspettative, i propri desideri, vogliono amare ed essere amati da quelli che amano, vogliono essere in qualche modo immersi in una condizione protetta e sicura ma, nello stesso tempo, vogliono anche sperimentare l'adrenalina del rischio. La città quindi deve essere capace paradossalmente di darci queste due cose assieme, cioè sicurezza e rischio. Una città sicura non la vuole nessuno. Certo il cinema del ‘900, ma anche la letteratura, ma anche l'arte del ‘900, sono piene di queste contraddizioni; pensiamo banalmente a un pittore come Jackson Pollock, i suoi vortici i colori entrano proprio nel caos dell'esistenza della metropoli, la New York degli anni Cinquanta. Io penso a questa possibilità: esprimere il flusso che continuamente porta nuovi elementi, nuovi materiali, per arrivare invece all'entità duratura. Ecco, io penso che questo sia il lavoro che voglio fare. Io voglio fare un’architettura che anche fra 50 anni duri commercialmente; l’estimo calcola la durata di un edificio in un secolo. Ecco, un edificio, nell'arco di 100 anni, dovrebbe portare ancora le sue valenze in modo visibile, dovrebbe poter portare nel mondo un suo contenuto. Oggi questa opinione non è molto condivisa, oggi la maggior parte degli architetti, grosso modo l’80%, vanno nella direzione opposta, cercano di interpretare i flussi correnti, si allineano a quella liquidità di cui abbiamo detto; io invece penso che sia più interessante il contrario, tutto qua.
Anna Rita EmiliSe non erro, lei ha introdotto il termine di architettura disegnata a Roma dopo un dialogo con Francesco Moschini. Guardando i suoi straordinari disegni, a partire dal 1964, ne cito qualcuno, “Interni” del ’76, “Torri” del ‘76, trovo che ci sia molta somiglianza con il progetto per lo Eurosky Tower. Credo che tra le sue opere realizzate sia quella più in linea con questo suo intento originario; possiamo considerare quest’opera un'utopia realizzata?
Franco Purini Be’, per quanto riguarda la mia esperienza personale con Laura dal 1966 in poi direi di si, nel senso che nel ‘72 partecipammo a un concorso del Inarch/Sir; la Sir era una società che produceva materiali edilizi e vincemmo con il progetto di un torre nella campagna romana che ricorda molto questa torre. Abbiamo impiegato 40 anni per realizzare quest’opera basata proprio sul tentativo di costruire un edificio che possa essere sia contemporaneo che capace di resistere. Ad esempio abbiamo ridotto la composizione ad un solo modulo genetico, il modulo della loggia, ripetuto con grande rigore e, se si scorrono gli studi preliminari, si vede quanto lavoro è stato fatto in questa direzione. Abbiamo deciso poi di inserire un solo l’elemento che caratterizzasse la composizione a scala più grande: la fenditura centrale genera un colloquio tra le architetture caratterizzate da questo segno e innesca una dialettica irresolubile tra l'uno e il due; cioè, guardando la torre, uno si chiede - anche se non se ne accorge si chiede - ma queste sono due torri unite o è un elemento diviso da un segno? e non si può rispondere. Voglio rievocare certi ragionamenti che fa Robert Venturi sulla forma architettonica in “Complessità e Contraddizioni nell’Architettura”: è un'opera in cui questa ambiguità di fondo costituisce l'elemento concettuale ed anche emotivo che la rende, o dovrebbe renderla, significativa; insieme ovviamente alla fioritura sul tetto delle due “lame”. C’è questa volontà di ricominciare la composizione con il piano di copertura e il piano degli alloggi che dialogano contemporaneamente con lo skyline urbano. Ci sono delle belle sequenze, quando la torre era ancora in costruzione, nel film di Woody Allen girato a Roma in cui questo aspetto emerge con chiarezza; un brutto film in cui c’è però un'immagine presa dal Pincio in cui questa torre, che sta cominciando la sua avventura, compare assieme alle cupole, al Pantheon e a varie altre torri comprese queste dell’Eur, in cui è evidente il tentativo di costruire un’immagine semplice. Di solito, specialmente i giovani, distinguono tra un’architettura semplice e un’architettura complessa e dicono, per fare un esempio: Ungers è semplice e Libeskind è complesso. Questa distinzione non esiste, Ungers e Libeskind sono complessi allo stesso modo, soltanto che uno, Libeskind, sceglie di tradurre questa complessità in una forma plastica eccezionale ed eccessiva, Ungers, invece, nasconde la complessità in una specie di secondo testo inserito dentro questa apparente mancanza di complessità. Io posso camminare sotto l’architettura di Ungers e manco guardarla o accorgermene. Nella percezione dalla strada posso anche non accorgermi di quell’architettura, ma questo lo possiamo constatare anche a Vicenza quando guardiamo La Rotonda di Palladio. Nella propaggine estrema dei colli Euganei la vediamo impressa nel panorama e possiamo anche non accorgerci che ci sia, però ad un secondo sguardo, la sua estrema complessità di scrittura quasi ci assale: perché hanno fatto questi quattro pronai, questa specie di ideale rotazione in cui tutto il mondo diventa uguale, in cui si perdono le differenze: la casa è sempre uguale da tutte le parti verso le quali si affaccia, che significa questo concetto rotatorio? Sicuramente c'è una sorta di metafora cosmica che si rappresenta nell'interno del vano centrale a cupola, ma ci sono anche altri elementi che, guardando meglio, destano attenzione: le finestre, ad esempio, non sono esattamente al centro delle pareti come noi le immagineremmo, c’è tutto un gioco di tensioni sottili che solo a un secondo livello del testo si possono comprendere. Penso che questa sia la scelta migliore da fare: fare opere che non invadono ma contengono questo testo segreto che poi è a disposizione di chi ha voglia di entrarci. Molte architetture del nostro tempo sono fatte così.
Ludovico RomagniVorrei rimanere sul progetto della Torre: nel pensiero comune, anche confortato da ambigue discussioni accademiche, le idee sull’architettura e la città si ingegnerizzano sempre di più in nome di un pragmatismo ambientale, di una convenienza costruttiva, oppure si rifugiano nel recupero dell’esistente e comunque il concetto di sostenibilità pervade tutto. Lei parla di un “paradigma della sostenibilità” che deve essere in qualche modo decifrato. Quale deve essere il contributo del progetto verso la sostenibilità? Questa torre è una risposta? L’unica possibilità che ha il progetto di confrontarsi con la sostenibilità e quella di dargli forma?
Franco Purini Si, beh, io prima di tutto penso una cosa che forse qualcuno potrebbe anche condividere: in l’Italia più che alla presenza di una vera architettura sostenibile nelle città, assistiamo al manifestarsi sempre più evidente di uno stile che non ha molto a che fare con le vere soluzioni sostenibili. C'è uno stile della sostenibilità. Se io oggi voglio fare l'architetto che si accorda ai propri tempi allora metto il legno, vetrate schermate, pareti verdi. Ecco c'è proprio una specie di vocabolario della sostenibilità che secondo me non ha molto senso. Per esempio questo edificio ha una parete ventilata ma non c’è lo stile “parete ventilata”; qui uno potrebbe anche non pensare che c’è la parete ventilata. In questa torre le uniche cose che fanno pensare alla sostenibilità sono appunto questi due totem superiori che hanno in realtà un altro valore; per tornare all’inizio della nostra conversazione, hanno il valore di ri-immettere questo edificio nella vicenda dell'avanguardia. Il grande traliccio è un omaggio alla famosa tribuna Lenin, quindi è un omaggio mio al costruttivismo che tanto mi ha fatto ragionare da giovane. Se abbiamo bisogno dell’energia solare, bene, facciamo un’offerta votiva che non sia il solito pannello che non si vede, che sia un elemento che entra nello skyline urbano nella sua verità. Esiste? e allora facciamolo vedere. Credo sia indiscutibile pensare in termini di sostenibilità ma credo che la sostenibilità debba essere vera; per esempio questo edificio è al livello massimo della valutazione di sostenibilità. Quest’opera è progettata per ottenere il massimo delle prestazioni, dal raffrescamento, allo smaltimento dei rifiuti, al riciclo delle acque piovane, insomma, c'è tutto quanto può alleviare il costo che un'opera richiede alla natura per esistere senza nessuna enfasi. Noi avremmo dovuto essere così virtuosi da fare di questa problematica il luogo nativo di un nuovo linguaggio? No questo non mi interessa.
Ludovico RomagniHo avuto la possibilità di visitare il cantiere quando si stavano montando i pannelli esterni delle pareti ventilate. Rimasi colpito dalla scelta del materiale grigio che era significativamente diverso dal quello rappresentato nelle immagini renderizzate che circolavano sulla rete in cui il contrasto “modernista” del bianco si inseriva nello skyline della città e delle sue ampie pause verdi. Perché questa differenza?
Franco Purini Il rivestimento è sempre stato grigio, lo abbiamo scelto presto perché a Roma non si può usare il travertino, cosa che tra l’altro abbiamo anche pensato di usare. La qualità dei travertini attuali non è più quella che per esempio ha scelto Mies Van der Rohe per i suoi grattacieli; lui stesso veniva a sceglierli e la cosa allora era possibile. Oggi, anche per un problema di costi, non è possibile aprire nuove cave per recuperare un travertino migliore. Quello che si trova è troppo poroso e estremamente variabile nel colore. Nell’edificio che stiamo finendo di realizzare qui accanto abbiamo deciso di utilizzare la pietra d’Istria che invece ha una compattezza e un colore omogeneo per cui è più affidabile.
Anna Rita EmiliVorrei rivolgerle un’ultima domanda sul progetto di una torre che trovo molto bella e che fa parte del concorso per le cinque torri di Shanghai; ci fa una breve descrizione di questo progetto che appare ancora più forte e eccessivo del Eurosky tower ?
Franco Purini Guardi quel progetto, come molti altri nostri progetti, cammina un po’ sul filo del rasoio perché noi abbiamo un’idea dell’architettura che ci consente poche cose. Non lavoriamo su molti temi ma sappiamo, per esempio, che il tema che vogliamo esprimere in un progetto non è riconoscibile se non in presenza di una sua contraddizione premeditata. Per esempio, io ho un grande rispetto, mi identifico con l’architettura in cui lo spazio e la tettonica sono equivalenti però, a mio avviso, la solidità tettonica ha senso soltanto se almeno in un punto viene contraddetta altrimenti non ha molto valore. Basta introdurre un elemento in qualche modo enigmatico, per far si che la gente guardandolo dica: ma perché c'è quella soluzione?. Nel momento in cui uno formula quella soluzione immediatamente tutte le cose vanno a regime; se invece non ci fosse quel gesto di disturbo quell’edificio sarebbe, francamente, non dico banale, ma privo di quello spirito interno che va in qualche modo contro se stesso. E perché questo? Perché ogni edificio è pienamente se stesso ma anche qualcos'altro, deve saper costruire un luogo ma anche dislocarsi. E’ un principio di contraddizione che ho preso da Tafuri e che va inserito sempre, in qualsiasi cosa si faccia. Anche in questa torre avremmo potuto benissimo avvicinare di un modulo le due parti e fare una lastra tutta piena. Ma torri concepite con questa logica ce ne sono molte per cui, questo distanziamento crea una tensione che, non solo innesca questa dialettica 1-2, ma in qualche modo rende la cosa meno scontata. Ecco, secondo me, pur restando sempre nell'ambito di una semplicità estrema, nella capacità di durare, ma anche - come succede all’architettura quando è tale - di rinnovare ciclicamente i propri contenuti, questa torre rispecchia la nostra idea di architettura. Prendiamo ad esempio la Torre Velasca: quello che vede lei o che vedo io adesso, non è esattamente quello che ha pensato Rogers; quella torre oggi è un’altra perché le opere d'arte se sono tali cambiano eppure restano sempre le stesse. I loro valori vengono costantemente riformulati: la villa La Rotonda che vedo io non è certo quella che ha visto il suo artefice, contiene qualcosa di diverso proprio perché sono passati 400 anni e c'è dietro una storia che in qualche modo questo edificio ha registrato. Questo concetto l’ho ripreso da una trascrizione di quell’intuizione meravigliosa di Freud, esposta nel “Disagio della Civiltà”, proprio a proposito di Roma: tutto ciò che è passato in una città, ma io penso anche in un edificio nella città, non si perde mai. Freud scrive: “Camminando sul Palatino è come se noi vedessimo i palazzi di Cesare ancora intatti”. Oggi la compresenza di varie temporaneità è ciò che rende tale l'architettura della città. Io credo si debbano fare architetture che sono intonate con questo sentimento. Per questo, man mano che divento più vecchio, credo che la città non si possa conoscere e, anche se provengo da un’impostazione razionale della disciplina architettonica, mi rendo conto che è impossibile arrivare a conoscerla fino in fondo. L’unico modo di conoscerla realmente è il progetto, facendo progetti, è l’unico modo; progettando, qualche cosa sulla verità dell’architettura della città viene sempre fuori. Però io voglio rinunciare all’idea di essere in grado di conoscere tutto di questa città; vivo qui da quando sono nato ma mi sfuggono costantemente alcune cose, altre le capisco ma la complessità non consente di sapere tutto. Quando guardo il panorama dall’alto di questa torre e scopro questa immagine studiata sulle carte, di zolle costruite che galleggiano in un mare di vuoti verdi, questa infinita città arcipelago che ha dominato il mondo antico, a un certo punto mi rendo conto che la osservo ma costantemente lei si sottrae. Freud ci viene in aiuto quando dice che la città di Roma non è solo un’entità fisica ma è anche un'entità psichica e queste due dimensioni sono in rapporto tra loro; qualcosa ce la può insegnare la psico-geografia, questo incrocio fra biografia, storia, geografia, vissuto personale, vissuto collettivo. La psico-geografia, praticata spesso in modo sublime da uno scrittore inglese Iain Sinclair, che ha dedicato a Londra il più bel libro che abbia mai letto sulla grande capitale inglese “London Orbital”, è il resoconto di una passeggiata a piedi lungo il raccordo anulare di Londra che è lungo 240 km (quello di Roma è 60 circa); immaginate quanto tempo deve aver impiegato per percorrere un tale distanza. Il racconto è meraviglioso perché incrocia tantissimi livelli di significato della città che la persona camminando, in esplorazione, riesce a far emergere con grande nitidezza ma allo stesso tempo confonde nella sommatoria delle varie storie che si incrociano e che confliggono.
La seguente intervista si è svolta presso l’Eurosky tower di Roma
Anna Rita Emili Franco Purini è uno dei più importanti architetti di fama internazionale per il suo contributo alla dimensione teorica e progettuale dell’architettura. In che ambito nasce la sua ricerca architettonica e quanto l’aspetto visionario di Sacripanti ha influenzato la sua architettura?
Franco Purini La mia formazione avviene incrociando tre aspetti: il primo è un riferimento al razionalismo italiano degli anni ‘30 in particolare alle figure di Adalberto Libera e Giuseppe Terragni. Poi, un'attenzione molto sincera, non soltanto culturale ma anche umana, alla minimal art e specialmente all'opera di Donald Judd di cui ho apprezzato lo sforzo eroico di confrontarsi con la complessità del mondo contemporaneo riuscendo ad arrivare alla semplicità della verità. Ovviamente una sua verità personale che ho condiviso come del resto molte altre operazioni dell’arte, altrettanto legittime, in questo caso l’arte plastica. Mi ha sempre interessato questa capacità, diciamo “spirituale”, di pervenire al senso delle cose, alla loro “ragione”. Il terzo aspetto è la grammatica generativa di Noam Chomsky, il teorico del linguaggio, che ho studiato da giovane, quando avevo appunto 24 -25 anni, e in Italia comparivano le prime traduzioni dei suoi libri; mi affascinava la sua teoria consistente nel credere, nell'affermare, che il linguaggio non è qualcosa che si apprende ma è una funzione della mente. Quindi il linguaggio è dentro di noi in quanto esseri umani e questo che cosa produce? Produce il fatto che una volta che noi inneschiamo una processualità linguistica, questa procede da sola in una specie di duello tra la capacità autogenerativa della forma, come nel caso dell’architettura, delle arti plastiche e della pittura, e la necessità di dare un senso a questa seminaturalità dei segni che si incalzano e si celano l’uno dall’altro in un moto incessante. Quindi, nel 1968, dall’unione di questi tre riferimenti, con una tavola che è un po' un manifesto di questa posizione ancora oggi, è nata la mia architettura. Ovviamente le scelte che si fanno durante l’arco della vita, anche se sono coerenti con quella prima visione, attraversano periodi diversi subiscono delle torsioni, delle vibrazioni, a seconda di quello che sta succedendo.
Anna Rita Emili In un'intervista del 1998 lei afferma che nella nuova dimensione c'era tutta l’ansietà per il futuro. Durante i concorsi svolti in quel decennio sul tema del centro direzionale, era presente l'idea iperbolica del costruito che, in fondo, materializzava la paura per la Città Futura. Rispetto a questa affermazione come colloca il suo progetto della “città compatta” del ’66?
Franco Purini Il progetto della città compatta, che in questi giorni è casualmente in mostra al MAXXI nella esposizione dei materiali della loro collezione, era proprio il tentativo di confrontarsi con la problematica della città del domani. Era il periodo della rinascita delle avanguardie - quello degli anni ’60 - che ha interessato la cultura mondiale, europea e anche italiana. Roma è stata uno dei centri di questa rinascita e io, sotto l'influenza di Sacripanti presso il quale lavoravo in quegli anni, ho tentato, assieme a Laura Thermes, di dare una struttura e un'immagine a questa volontà di pensare la città del domani. In quegli anni erano stati appena inventati i container e noi prendemmo spunto proprio da questi. Però sotto l'influenza di Khan, perché per un anno ho sentito un'influenza forte di Louis Kahn …. è durata esattamente un anno, trasformammo questi container, che erano allora come sono adesso 3 x 3 per 6 o 12 metri, in cubi sempre di lamiera di 6 x 6 con una serie di bucature che permettevano di costruire un tessuto compatto in acciaio che poteva essere utilizzato in vari modi e collegato a tutti i livelli da una rete di percorsi. C'è una tavola, a cui sono molto legato, che rappresenta proprio uno spazio diciamo a-direzionale, teoricamente infinito, dentro il quale era possibile praticare scavi, lasciare delle lacune, in modo tale che la luce penetrasse all'interno. Quindi era uno spazio poteremmo dire anche neopiranesiano. Che cosa veniva fuori montandoli assieme? Quello è un progetto a cui ovviamente tengo molto perché ci sono una serie di idee sulla città che saranno sviluppate nei decenni successivi. Anzi dirò un'altra cosa: ci sono anche temi che qualche anno dopo, tre anni dopo, saranno affrontati dall'avanguardia radicale fiorentina. Dal Superstudio e da Archizoom. Per esempio il tema del tessuto continuo di non stop city è già in quella tavola se si confrontano i due elaborati. Ovviamente era un momento, che è durato fino al ’69 ’70 in cui a Roma, Firenze, Milano, si stava cercando una nuova immagine della città.
Anna Rita Emili Vorrei soffermarmi ancora sul concetto di nuova dimensione che, negli anni ’60, sottintendeva un duplice aspetto caratterizzato dal binomio avanguardia-sperimentalismo. L’avanguardia era più legata all'aspetto teorico, alla modificazione del linguaggio, fino ad arrivare all’utopia, mentre lo sperimentalismo aveva a che fare più con una attinenza al territorio. Possiamo considerare la sua ricerca architettonica più avanguardia o più sperimentalismo?
Franco Purini Ma i due termini non sono in contraddizione, anzi non c'è avanguardia senza sperimentalismo, addirittura potremmo dire che l'avanguardia è la forma più avanzata di sperimentazione. Ovviamente capisco perché lei le ha messe in contrasto, perché nella avanguardia c'è l'idea di un lavoro in progress che subisce anche gli incidenti della sperimentazione; può incontrare alcuni ostacoli che obbligano a cambiare strada. Laddove come avanguardia noi intendiamo di solito una visione del mondo anche molto astratta, molto letteraria, che poi si invera in un linguaggio. Per questo posso accettare che ci sia la distinzione che lei introduce ma direi che, la cosa più interessante, è proprio l'aspetto determinato dell'avanguardia, da un pensiero che radicalmente vuole cambiare l’immagine che si ha di un certo aspetto del mondo e che investe sia la città, sia la vita in comune, sia la sostanza architettonica degli edifici.
Ludovico Romagni L’avanguardia è una condizione paradossale. Per esistere si basa sia sulla condizione di osservazione, fortemente legata alla contemporaneità, sia di visione, in anticipo sui tempi. Deve mantenere quindi un equilibrio un po' instabile tra i problemi attuali e le condizioni future. Ma che cosa succede quando l'avanguardia va “fuori sinc”, quando alcune cose sono annunciate in maniera troppo prematura e altre invece sono annunciate in ritardo. Nel secolo scorso le prime avanguardie probabilmente non sono state comprese perché troppo sbilanciate in avanti mentre le seconde avanguardie erano già quasi in ritardo.
Franco Purini Diciamo, e la cosa è abbastanza oggettivamente dimostrabile nell’esperienza del ‘900, che le avanguardie non sono mai riuscite a dare un seguito alle loro visioni nei tempi previsti. Però sappiamo anche che alla fine quello che le avanguardie hanno ipotizzato si è realizzato. Ci sono voluti circa ottanta anni perché le immagini di Finsterlin diventassero, attraverso Gehry, architettura costruita. E così come ci sono voluti più di due o tre decenni per vedere le immagini futuriste entrare in profondità nella cultura urbana diventando quasi visioni normalizzate, accettate anche dal pubblico più vasto. Quindi potremmo dire che le visioni delle avanguardie non sono state sterili, alcune idee sono spuntate fuori dopo sessanta anni, altre cominciano soltanto adesso ad essere comprese nella loro realtà. Per esempio, c'era una frase di Sant’Elia che è stata inclusa nel Il Manifesto dell’architettura futurista (la frase però pare che non sia stata scritta da Sant’Elia bensì da Marinetti): “ogni generazione costruirà la propria casa”. Questa idea effimera dell’abitare si sta facendo strada proprio in questi anni. Anzi, qualche anno fa, quando ci fu un improvviso innamoramento da parte di molti teorici verso la città per il nomadismo, vale a dire abbandonare l’idea di casa come qualcosa di stabile e di duraturo verso un modo di abitare migrante, che ogni volta muta, quell’idea, in definitiva, ha trovato un riscontro. Quindi l'avanguardia non è stata una grande macchina celibe che ha prodotto cose solo autoreferenziali, ma sicuramente ha dato impulso a una ricerca che nei tempi ha avuto risultati importanti. D'altra parte, se diciamo “avanguardia”, che è un termine militare e quindi cela un’idea bellica, implichiamo la “retroguardia”. L’avanguardia è tale perché dietro c’è qualcuno che segue; questa dialettica fra chi guarda in avanti e la massa che segue, e certe volte per motivi inerziali rallenta, è inevitabile. E’ abbastanza interessante osservare tutta la complessa vicenda del ‘900 in architettura; tra l'altro bisogna riconoscere che è ancora in gran parte da scrivere nei suoi veri termini. La storiografia dell'architettura moderna innanzitutto è troppo precoce, quindi in realtà non si tratta di storia ma di una sorta di cronaca propagandistica e ideologica. La prima storia dell'architettura moderna esce se non sbaglio nel ’43. Il Manifesto del partito comunista è del ’14, solo trenta anni dopo, quindi non si può parlare ancora di storia. Eppure tutti coloro che hanno scritto riepiloghi dell’architettura moderna li hanno intitolati “storia”. Zevi nel 1950, poi Benevolo. Quindi soffriamo della mancanza di un vero punto di vista storico su quello che è successo un secolo fa. Saranno i giovani dell'ultima generazione che riusciranno a scrivere le prime storie, probabilmente non tanto oggettive ma corrispondenti ai fatti, di cui potremmo disporre. Un precedente importante è stata la storia di Frampton che indubbiamente si è distaccato dallo stereotipo ideologista e ha cercato di rivedere i fenomeni nella loro varietà. Con una differenza però: allineandoli, per così dire, a un livello medio che non fa vedere bene le differenze. Io dico sempre che una bella storia assomiglia un po' a quello che troviamo in un supermercato: entriamo e troviamo gli scaffali con diversi prodotti; lì c’e il futurismo, il costruttivismo il razionalismo, pure il postmodernismo tutti messi in questa condizione di consumo culturale elevato, ma sempre consumo. Cioè è una storia dell’architettura molto utile agli studenti ma che ha perso l’idea secondo la quale, nella storia propagandista, c’era la finalità di aiutare a cercare un nostro punto di vista attraverso l'analisi di quello che c'è già stato.
Ludovico Romagni Comunicare attraverso il disegno un pensiero libero e non necessariamente reale, scollegato dalla realtà, una visione destinata a rimanere visione, ha rappresentato per molti degli architetti della sua generazione un percorso parallelo da affiancare a quello della rappresentazione reale e scientifica del progetto. Si è cercato di sperimentare ed esplorare forme culturali e figurative inedite dove gli ambiti di ricerca progettuali potessero raccontare da un lato l’estremizzazione delle condizioni attuali e dall’altro le sue potenzialità future. Quasi sempre queste rappresentazioni hanno nascosto una posizione di dissenso e un rifiuto dello stato delle cose cui hanno opposto l’Utopia come concetto rivoluzionario e alternativo. Quali sono a suo avviso le qualità del disegno come strumento critico, politico, ideale per manifestare questi aspetti?
Franco Purini Be’ il disegno è uno degli strumenti che l’architetto ha a disposizione peraffermare la propria presenza attiva. Nel mondo ci sono vari strumenti: c'è la riflessione teorica quindi la scrittura, c'è l'intervento nel concreto della città costruendo architettura e c’è l’uso dell’immagine, della rappresentazione grafica e della rappresentazione architettonica come formidabile spazio nel quale anticipare ciò che si desidera che avvenga. Quindi nel disegno c'è un aspetto critico, un aspetto visionario e un aspetto anche conoscitivo. Spesso si accusa la rappresentazione di essere tale come se fosse al posto di qualcosa di concreto, una cosa che non c'è. Si è vero, quando faccio il disegno di una città, per esempio che ho inventato, quella città non c'è ancora, ma quel disegno è reale e molto concreto nella sua capacità di veicolare tensioni, prospettive, soluzioni, spazi immaginifici. Noi potremmo fare una magnifica storia dell'architettura moderna solo a partire dai disegni; altrimenti cosa dovremmo dire della città per tre milioni di abitanti di Le Courbusier? che non è nulla? non è reale? è una rappresentazione? E’ un manifesto che senz’altro è stato più determinante, per la concretezza della ricerca moderna, di quanto lo sia stata l’unità di abitazione che, seppur riprodotta alcune volte, non ha la carica totalizzante dell'utopia urbana. Così come potremo parlare dei progetti di Hilberseimer, nessuno dei quali pienamente realizzato, oppure delle utopie italiane degli anni ’60, dei centri direzionali, delle visioni della città di personalità come Aldo Rossi che sono sostanzialmente rimaste sulla carta. Aldo Rossi ha costruito edifici ma non ho avuto la possibilità di costruire un pezzo di quella città. Per cui io tranquillamente riconosco che ci sono anche modi alternativi di comunicare; ad esempio, la scrittura teorica può benissimo essere alternativa al disegno; il disegno però contiene qualcosa di più proprio perché è uno strumento che rappresenta per analogia le cose. Cioè, se io voglio parlare della città, disegno la città e la riconosco subito; anche chi non è architetto riconosce che cosa c'è dietro quel disegno che sto proponendo. Mi ricordo certi disegni o modelli di Gropius, risalenti al periodo in cui insegnava ad Harvard, che probabilmente rappresentano le cose più coraggiose che ha pensato dopo l’esperienza degli anni ’20. Il periodo americano è stato un periodo molto fecondo per lui come docente ma, come architetto, non ha fatto cose particolarmente significative tranne alcune elaborazioni (fatte nell’ambito del suo insegnamento) che rappresentano riferimenti ancora attuali.
Ludovico Romagni L'architettura ha una sua specificità disciplinare molto forte; Massimo Ilardi direbbe che l’architettura costruisce relazioni tra una visione di società, l’assetto del territorio e la forma architettonica. Vema, il suo progetto presentato alla Biennale d’Architettura di Venezia del 2006, rappresentava un po' questa visione di città utopica: l’aspetto sociale, il luogo di incontro della nuova generazione creativa, l’organizzazione a griglia del territorio, la forma delle architetture?
Franco Purini La sfida di quel progetto consisteva nel tentativo di far comprendere al pubblico (venuto numerosissimo al padiglione italiano del 2006) che ciò che si considerava allora un difetto, vale a dire la volontà dei venti gruppi di giovani architetti che ho invitato, di parlare ciascuno il proprio linguaggio, rappresentava invece una grande opportunità. Il tentativo era quello di creare una sorta di comunità nuova in cui proprio la diversità era l’elemento che costituiva il fattore di novità. La diversità dei vari lessici messi in atto non toglieva all’insieme la possibilità di prefigurare uno spazio urbano complesso e in qualche modo capace di dialogare con le sue diverse espressioni. Una vera e propria sfida, erano gli anni in cui si constatava come il progetto urbano fosse ormai esautorato, come l’architettura fosse architettura di pezzi speciali che non si ricollegavano a un disegno complessivo. E’ stato proprio un tentativo che, anche in quella condizione così difficile, in quella sorta di disgregazione liquida (diremmo con Baumann) del linguaggio architettonico, si poteva trovare un’unità di intervento in cui certi temi risuonassero all’interno di tutti i lavori presentati. Io sono molto contento di aver fatto quell'esperienza che oggi verrebbe chiamata esperienza sulla Smart City; il termine Smart city però non mi piace affatto perché contiene qualcosa che non ha a che fare con l'intelligenza quanto con la scaltrezza, con la versatilità, è qualcosa di molto diverso dall'intelligenza. L'intelligenza è, fra l’altro, un attributo di Minerva mentre la scaltrezza, la versatilità, è un attributo di Mercurio; quindi dietro la Smart City c’è una coloritura molto forte di tipo commerciale e questo, secondo me, deve suscitarci qualche dubbio; la città è più profonda rispetto agli aspetti che ci facilitano nello scambio commerciale, tutto qua.
Ludovico Romagni I confini tra le varie forme artistiche si sono molto ridotto e all’architettura è stata erosa gran parte della sua specificità. Non c'è più una distinzione tra le forme artistiche accumunate dal denominatore comune dell’estetizzazione diffusa. Secondo lei l’architettura deve ritrovare una sua identità disciplinare e come può farlo?
Franco Purini Io sono molto interessato a tutto ciò che sta avvenendo, sono apertissimo, mi piace anche la confusione dei linguaggi, in qualche modo persino mi esalta. Però ci sono aspetti fondamentali che non dimentico mai in base ai quali l’architettura può essere considerata sostanzialmente in due modi distinti: o come uno strumento per rendersi conto e rendere conto dei flussi che attraversano la società e le modificazioni in atto o, al contrario, come qualcosa che si oppone a questa processualità e che intende rappresentare ciò che di permanente esiste nella vita degli esseri umani. Gli esseri umani che cosa vogliono poi sostanzialmente? Vogliono vivere una vita in cui realizzano le proprie aspettative, i propri desideri, vogliono amare ed essere amati da quelli che amano, vogliono essere in qualche modo immersi in una condizione protetta e sicura ma, nello stesso tempo, vogliono anche sperimentare l'adrenalina del rischio. La città quindi deve essere capace paradossalmente di darci queste due cose assieme, cioè sicurezza e rischio. Una città sicura non la vuole nessuno. Certo il cinema del ‘900, ma anche la letteratura, ma anche l'arte del ‘900, sono piene di queste contraddizioni; pensiamo banalmente a un pittore come Jackson Pollock, i suoi vortici i colori entrano proprio nel caos dell'esistenza della metropoli, la New York degli anni Cinquanta. Io penso a questa possibilità: esprimere il flusso che continuamente porta nuovi elementi, nuovi materiali, per arrivare invece all'entità duratura. Ecco, io penso che questo sia il lavoro che voglio fare. Io voglio fare un’architettura che anche fra 50 anni duri commercialmente; l’estimo calcola la durata di un edificio in un secolo. Ecco, un edificio, nell'arco di 100 anni, dovrebbe portare ancora le sue valenze in modo visibile, dovrebbe poter portare nel mondo un suo contenuto. Oggi questa opinione non è molto condivisa, oggi la maggior parte degli architetti, grosso modo l’80%, vanno nella direzione opposta, cercano di interpretare i flussi correnti, si allineano a quella liquidità di cui abbiamo detto; io invece penso che sia più interessante il contrario, tutto qua.
Anna Rita Emili Se non erro, lei ha introdotto il termine di architettura disegnata a Roma dopo un dialogo con Francesco Moschini. Guardando i suoi straordinari disegni, a partire dal 1964, ne cito qualcuno, “Interni” del ’76, “Torri” del ‘76, trovo che ci sia molta somiglianza con il progetto per lo Eurosky Tower. Credo che tra le sue opere realizzate sia quella più in linea con questo suo intento originario; possiamo considerare quest’opera un'utopia realizzata?
Franco Purini Be’, per quanto riguarda la mia esperienza personale con Laura dal 1966 in poi direi di si, nel senso che nel ‘72 partecipammo a un concorso del Inarch/Sir; la Sir era una società che produceva materiali edilizi e vincemmo con il progetto di un torre nella campagna romana che ricorda molto questa torre. Abbiamo impiegato 40 anni per realizzare quest’opera basata proprio sul tentativo di costruire un edificio che possa essere sia contemporaneo che capace di resistere. Ad esempio abbiamo ridotto la composizione ad un solo modulo genetico, il modulo della loggia, ripetuto con grande rigore e, se si scorrono gli studi preliminari, si vede quanto lavoro è stato fatto in questa direzione. Abbiamo deciso poi di inserire un solo l’elemento che caratterizzasse la composizione a scala più grande: la fenditura centrale genera un colloquio tra le architetture caratterizzate da questo segno e innesca una dialettica irresolubile tra l'uno e il due; cioè, guardando la torre, uno si chiede - anche se non se ne accorge si chiede - ma queste sono due torri unite o è un elemento diviso da un segno? e non si può rispondere. Voglio rievocare certi ragionamenti che fa Robert Venturi sulla forma architettonica in “Complessità e Contraddizioni nell’Architettura”: è un'opera in cui questa ambiguità di fondo costituisce l'elemento concettuale ed anche emotivo che la rende, o dovrebbe renderla, significativa; insieme ovviamente alla fioritura sul tetto delle due “lame”. C’è questa volontà di ricominciare la composizione con il piano di copertura e il piano degli alloggi che dialogano contemporaneamente con lo skyline urbano. Ci sono delle belle sequenze, quando la torre era ancora in costruzione, nel film di Woody Allen girato a Roma in cui questo aspetto emerge con chiarezza; un brutto film in cui c’è però un'immagine presa dal Pincio in cui questa torre, che sta cominciando la sua avventura, compare assieme alle cupole, al Pantheon e a varie altre torri comprese queste dell’Eur, in cui è evidente il tentativo di costruire un’immagine semplice. Di solito, specialmente i giovani, distinguono tra un’architettura semplice e un’architettura complessa e dicono, per fare un esempio: Ungers è semplice e Libeskind è complesso. Questa distinzione non esiste, Ungers e Libeskind sono complessi allo stesso modo, soltanto che uno, Libeskind, sceglie di tradurre questa complessità in una forma plastica eccezionale ed eccessiva, Ungers, invece, nasconde la complessità in una specie di secondo testo inserito dentro questa apparente mancanza di complessità. Io posso camminare sotto l’architettura di Ungers e manco guardarla o accorgermene. Nella percezione dalla strada posso anche non accorgermi di quell’architettura, ma questo lo possiamo constatare anche a Vicenza quando guardiamo La Rotonda di Palladio. Nella propaggine estrema dei colli Euganei la vediamo impressa nel panorama e possiamo anche non accorgerci che ci sia, però ad un secondo sguardo, la sua estrema complessità di scrittura quasi ci assale: perché hanno fatto questi quattro pronai, questa specie di ideale rotazione in cui tutto il mondo diventa uguale, in cui si perdono le differenze: la casa è sempre uguale da tutte le parti verso le quali si affaccia, che significa questo concetto rotatorio? Sicuramente c'è una sorta di metafora cosmica che si rappresenta nell'interno del vano centrale a cupola, ma ci sono anche altri elementi che, guardando meglio, destano attenzione: le finestre, ad esempio, non sono esattamente al centro delle pareti come noi le immagineremmo, c’è tutto un gioco di tensioni sottili che solo a un secondo livello del testo si possono comprendere. Penso che questa sia la scelta migliore da fare: fare opere che non invadono ma contengono questo testo segreto che poi è a disposizione di chi ha voglia di entrarci. Molte architetture del nostro tempo sono fatte così.
Ludovico Romagni Vorrei rimanere sul progetto della Torre: nel pensiero comune, anche confortato da ambigue discussioni accademiche, le idee sull’architettura e la città si ingegnerizzano sempre di più in nome di un pragmatismo ambientale, di una convenienza costruttiva, oppure si rifugiano nel recupero dell’esistente e comunque il concetto di sostenibilità pervade tutto. Lei parla di un “paradigma della sostenibilità” che deve essere in qualche modo decifrato. Quale deve essere il contributo del progetto verso la sostenibilità? Questa torre è una risposta? L’unica possibilità che ha il progetto di confrontarsi con la sostenibilità e quella di dargli forma?
Franco Purini Si, beh, io prima di tutto penso una cosa che forse qualcuno potrebbe anche condividere: in l’Italia più che alla presenza di una vera architettura sostenibile nelle città, assistiamo al manifestarsi sempre più evidente di uno stile che non ha molto a che fare con le vere soluzioni sostenibili. C'è uno stile della sostenibilità. Se io oggi voglio fare l'architetto che si accorda ai propri tempi allora metto il legno, vetrate schermate, pareti verdi. Ecco c'è proprio una specie di vocabolario della sostenibilità che secondo me non ha molto senso. Per esempio questo edificio ha una parete ventilata ma non c’è lo stile “parete ventilata”; qui uno potrebbe anche non pensare che c’è la parete ventilata. In questa torre le uniche cose che fanno pensare alla sostenibilità sono appunto questi due totem superiori che hanno in realtà un altro valore; per tornare all’inizio della nostra conversazione, hanno il valore di ri-immettere questo edificio nella vicenda dell'avanguardia. Il grande traliccio è un omaggio alla famosa tribuna Lenin, quindi è un omaggio mio al costruttivismo che tanto mi ha fatto ragionare da giovane. Se abbiamo bisogno dell’energia solare, bene, facciamo un’offerta votiva che non sia il solito pannello che non si vede, che sia un elemento che entra nello skyline urbano nella sua verità. Esiste? e allora facciamolo vedere. Credo sia indiscutibile pensare in termini di sostenibilità ma credo che la sostenibilità debba essere vera; per esempio questo edificio è al livello massimo della valutazione di sostenibilità. Quest’opera è progettata per ottenere il massimo delle prestazioni, dal raffrescamento, allo smaltimento dei rifiuti, al riciclo delle acque piovane, insomma, c'è tutto quanto può alleviare il costo che un'opera richiede alla natura per esistere senza nessuna enfasi. Noi avremmo dovuto essere così virtuosi da fare di questa problematica il luogo nativo di un nuovo linguaggio? No questo non mi interessa.
Ludovico Romagni Ho avuto la possibilità di visitare il cantiere quando si stavano montando i pannelli esterni delle pareti ventilate. Rimasi colpito dalla scelta del materiale grigio che era significativamente diverso dal quello rappresentato nelle immagini renderizzate che circolavano sulla rete in cui il contrasto “modernista” del bianco si inseriva nello skyline della città e delle sue ampie pause verdi. Perché questa differenza?
Franco Purini Il rivestimento è sempre stato grigio, lo abbiamo scelto presto perché a Roma non si può usare il travertino, cosa che tra l’altro abbiamo anche pensato di usare. La qualità dei travertini attuali non è più quella che per esempio ha scelto Mies Van der Rohe per i suoi grattacieli; lui stesso veniva a sceglierli e la cosa allora era possibile. Oggi, anche per un problema di costi, non è possibile aprire nuove cave per recuperare un travertino migliore. Quello che si trova è troppo poroso e estremamente variabile nel colore. Nell’edificio che stiamo finendo di realizzare qui accanto abbiamo deciso di utilizzare la pietra d’Istria che invece ha una compattezza e un colore omogeneo per cui è più affidabile.
Anna Rita Emili Vorrei rivolgerle un’ultima domanda sul progetto di una torre che trovo molto bella e che fa parte del concorso per le cinque torri di Shanghai; ci fa una breve descrizione di questo progetto che appare ancora più forte e eccessivo del Eurosky tower ?
Franco Purini Guardi quel progetto, come molti altri nostri progetti, cammina un po’ sul filo del rasoio perché noi abbiamo un’idea dell’architettura che ci consente poche cose. Non lavoriamo su molti temi ma sappiamo, per esempio, che il tema che vogliamo esprimere in un progetto non è riconoscibile se non in presenza di una sua contraddizione premeditata. Per esempio, io ho un grande rispetto, mi identifico con l’architettura in cui lo spazio e la tettonica sono equivalenti però, a mio avviso, la solidità tettonica ha senso soltanto se almeno in un punto viene contraddetta altrimenti non ha molto valore. Basta introdurre un elemento in qualche modo enigmatico, per far si che la gente guardandolo dica: ma perché c'è quella soluzione?. Nel momento in cui uno formula quella soluzione immediatamente tutte le cose vanno a regime; se invece non ci fosse quel gesto di disturbo quell’edificio sarebbe, francamente, non dico banale, ma privo di quello spirito interno che va in qualche modo contro se stesso. E perché questo? Perché ogni edificio è pienamente se stesso ma anche qualcos'altro, deve saper costruire un luogo ma anche dislocarsi. E’ un principio di contraddizione che ho preso da Tafuri e che va inserito sempre, in qualsiasi cosa si faccia. Anche in questa torre avremmo potuto benissimo avvicinare di un modulo le due parti e fare una lastra tutta piena. Ma torri concepite con questa logica ce ne sono molte per cui, questo distanziamento crea una tensione che, non solo innesca questa dialettica 1-2, ma in qualche modo rende la cosa meno scontata. Ecco, secondo me, pur restando sempre nell'ambito di una semplicità estrema, nella capacità di durare, ma anche - come succede all’architettura quando è tale - di rinnovare ciclicamente i propri contenuti, questa torre rispecchia la nostra idea di architettura. Prendiamo ad esempio la Torre Velasca: quello che vede lei o che vedo io adesso, non è esattamente quello che ha pensato Rogers; quella torre oggi è un’altra perché le opere d'arte se sono tali cambiano eppure restano sempre le stesse. I loro valori vengono costantemente riformulati: la villa La Rotonda che vedo io non è certo quella che ha visto il suo artefice, contiene qualcosa di diverso proprio perché sono passati 400 anni e c'è dietro una storia che in qualche modo questo edificio ha registrato. Questo concetto l’ho ripreso da una trascrizione di quell’intuizione meravigliosa di Freud, esposta nel “Disagio della Civiltà”, proprio a proposito di Roma: tutto ciò che è passato in una città, ma io penso anche in un edificio nella città, non si perde mai. Freud scrive: “Camminando sul Palatino è come se noi vedessimo i palazzi di Cesare ancora intatti”. Oggi la compresenza di varie temporaneità è ciò che rende tale l'architettura della città. Io credo si debbano fare architetture che sono intonate con questo sentimento. Per questo, man mano che divento più vecchio, credo che la città non si possa conoscere e, anche se provengo da un’impostazione razionale della disciplina architettonica, mi rendo conto che è impossibile arrivare a conoscerla fino in fondo. L’unico modo di conoscerla realmente è il progetto, facendo progetti, è l’unico modo; progettando, qualche cosa sulla verità dell’architettura della città viene sempre fuori. Però io voglio rinunciare all’idea di essere in grado di conoscere tutto di questa città; vivo qui da quando sono nato ma mi sfuggono costantemente alcune cose, altre le capisco ma la complessità non consente di sapere tutto. Quando guardo il panorama dall’alto di questa torre e scopro questa immagine studiata sulle carte, di zolle costruite che galleggiano in un mare di vuoti verdi, questa infinita città arcipelago che ha dominato il mondo antico, a un certo punto mi rendo conto che la osservo ma costantemente lei si sottrae. Freud ci viene in aiuto quando dice che la città di Roma non è solo un’entità fisica ma è anche un'entità psichica e queste due dimensioni sono in rapporto tra loro; qualcosa ce la può insegnare la psico-geografia, questo incrocio fra biografia, storia, geografia, vissuto personale, vissuto collettivo. La psico-geografia, praticata spesso in modo sublime da uno scrittore inglese Iain Sinclair, che ha dedicato a Londra il più bel libro che abbia mai letto sulla grande capitale inglese “London Orbital”, è il resoconto di una passeggiata a piedi lungo il raccordo anulare di Londra che è lungo 240 km (quello di Roma è 60 circa); immaginate quanto tempo deve aver impiegato per percorrere un tale distanza. Il racconto è meraviglioso perché incrocia tantissimi livelli di significato della città che la persona camminando, in esplorazione, riesce a far emergere con grande nitidezza ma allo stesso tempo confonde nella sommatoria delle varie storie che si incrociano e che confliggono.
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