Abbiamo incontrato Camillo Botticini nel centro natatorio di Brescia il 02 Luglio 2021.
Anna Rita EmiliCamillo Botticini è un architetto di spicco all’interno del panorama architettonico italiano e internazionale. Ha realizzato molte opere e ha vinto numerosi premi: il Premio Inarch, il premio Medaglia d’oro dell’Architettura nel 2012 e molti altri. Siamo all’interno di una delle sue opere più recenti e interessanti, il centro Natatorio a Brescia. Camillo come è iniziata la tua ricerca, quali sono stati i tuoi riferimenti diretti e indiretti, le collaborazioni più significative?
Camillo Botticini Mi sono laureato al Politecnico di Milano nel 1990 con Sergio Crotti e da subito ho avuto modo di collaborare con lui nelle attività didattiche e di ricerca. Poi ho collaborato con Guido Canali a Parma e successivamente con Giandomenico Belotti, un architetto meno noto ma di straordinario talento sia nell’ambito dell’architettura che in quello del design. Queste prime esperienze sono state determinanti soprattutto perché si inserivano in un periodo in cui l’architettura era caratterizzata da un atteggiamento essenzialmente legato a un’idea di scenografia urbana con una tendenza anti-costruttiva. Invece gli architetti con cui ho iniziato a collaborare avevano una specificità diversa che era quella di andare alla radice dell’aspetto edificatorio, del dettaglio, della definizione dell’architettura attraverso le sue caratteristiche specifiche. Non di un’architettura vista puramente sotto l’aspetto formale e ideologico. In quel periodo questo rifiuto di un rapporto diretto con l’aspetto realizzativo aveva caratterizzato anche l’ambito accademico, non tanto in termini pragmatici quanto, piuttosto, in termini di specificità della disciplina. Belotti, invece, era un architetto appartenente addirittura alla generazione precedente a quella dei miei docenti, ed era erede della migliore tradizione razionalista milanese che sublimava poeticamente la tettonica degli edifici. Canali era, ed è, un architetto legato direttamente a una tradizione del fare tipicamente emiliana ma anche alla cultura architettonica del nord Europa e quindi all’astrazione e alla silenziosità dell’architettura che si faceva, e si fa, attraverso la costruzione. Crotti aveva questa idea di architettura politecnica, di un’architettura che fosse erede della grande tradizione del saper costruire, tipicamente milanese peraltro.
Anna Rita EmiliCome queste figure di riferimento hanno poi interagito effettivamente con la tua architettura? C’è stato qualche tema particolare, qualcosa di specifico che all’inizio, in qualche modo, ha caratterizzato la tua ricerca?
Camillo Botticini Quello che mi interessava era capire come l’architettura si costruisce attraverso le sue componenti. L’architettura è un processo complesso che richiede ovviamente un aspetto ideativo generale legato al rapporto con il sito. Questa era la parte più interessante delle sperimentazioni appartenenti al mondo accademico, perché lì c’era una cultura attenta alle ragioni dei luoghi, ai principi insediativi quali elementi generatori del progetto. Erano le tematiche più significative della ricerca architettonica italiana degli anni ’70 e ’80 sulla città e sul paesaggio; in particolare della scuola gregottiana a cui faceva riferimento culturalmente anche Sergio Crotti, pur con distinguo molto specifici visti dall’interno e meno evidenti visti a distanza. A me interessava, in particolare, entrare dentro l’architettura, e il suo farsi. Ho rivolto lo sguardo verso quei paesi che, in quel momento in Europa, erano maggiormente in grado di sviluppare una ricerca specifica sul progetto costruito in relazione ai luoghi. Mi sembrava che in quella fase storica, la ricerca degli architetti portoghesi e spagnoli, come Carrilho da Graça, Souto de Moura, Esteban Bonell, della scuola catalana, fosse in grado di pensare l’architettura come fatto urbano e simultaneamente spaziale, tipologico e costruttivo di grande qualità. Un’architettura con dei contenuti che lavoravano su uno spazio misurato per il fruitore, dove tutte le componenti concorrevano a definire un’architettura autentica, intensa, e non un suo simulacro.
Tutti questi aspetti erano presenti in quel tipico pragmatismo che ancora oggi caratterizza questi due paesi, dove non si è mai perduto il rapporto tra architettura, ricerca e professione; cosa che in Italia, invece, era avvenuta e che tutt’ora permane anche se in misura minore. Questa capacità di incidere nella trasformazione della realtà, anche grazie allo strumento del concorso inteso come modo per definire con precisone un’idea di abitare e costruire, mi sembrava una peculiarità imprescindibile per quello che penso, ancora oggi, debba essere un’opera di architettura.
Ludovico RomagniIl nostro focus è quello di tentare di ricostruire i tratti di una ipotetica identità dell’architettura contemporanea italiana. Cerchiamo degli architetti che sono riusciti, a nostro avviso, a radicare in un progetto realizzato un pensiero teorico. Quali sono i temi che affollano la scatola bianca del tuo pensiero teorico?
Camillo Botticini Questa è una domanda centrale, perché dal mio punto di vista l’architettura ha alcuni elementi da cui parte come metodo e come processo. Molto spesso qualcuno ti chiede: “tu di cosa ti occupi? Qual è la tua specificità?”. Io credo che l’architettura sia una specificità. C’è la tendenza a far coincidere l’attività dell’architettura con un tipo specifico, mentre invece, come quasi tutti noi abbiamo imparato, e come credo che sia nel portato migliore della tradizione della ricerca architettonica italiana, l’architettura deve essere vista come un metodo di lavoro. In primo luogo, è la capacità di guardare ai luoghi come elementi generatori di una trasformazione. Questo è il punto di partenza di qualsiasi tipo di progetto. E lo dico perché il luogo è qualcosa di ambiguo. Il luogo non necessariamente determina il progetto in senso di vincolo. Il luogo a volte non esiste. Purini diceva una cosa che mi ha sempre colpito e cioè che l’architettura a volte deve auto-contestualizzarsi. Nonostante la stratificazione storico-geografica che caratterizza il nostro paese, oggi accade spesso che i luoghi vengano progressivamente cancellati e “disidentificati”. Quindi il problema dell’architettura è quello di generare luoghi, di costruire spazi, e soprattutto di lavorare nell’intervallo che c’è tra le cose e negli spazi aperti. Il problema è quello di progettare architetture dotate di consapevolezza del rapporto con il luogo specifico, con gradi di trasformazione che possono essere minimi, quando i luoghi sono sovradeterminati per segni, storia, contenuti, e massimi, quando invece l’architettura deve costruire una nuova identità. Chiaramente il tema è: qual è questa nuova identità? Evidentemente è un’espressione che rimanda a sua volta a un’interpretazione legata ai caratteri del luogo e a una ricerca che ha una connotazione individuale.
Si può lavorare applicando una matrice indifferenziata a qualsiasi luogo: alcuni architetti, ad esempio Gehry, costruiscono comunque con un linguaggio e con un approccio che caratterizza fortemente la loro architettura in qualsiasi contesto. Altri invece ricercano un’architettura che legge le specificità storiche e cerca di interpretare il luogo attraverso una modalità che non è sempre uguale. Evidentemente costruire un luogo come questo, che è una periferia storica degli anni ’60, non è uguale a costruire nel centro storico di Milano, piuttosto che a Siena, o in una banlieue parigina. Lo dico perché questo è il punto di partenza di ogni atto progettuale. Dopodiché ognuno di noi svolge una ricerca, come nel caso specifico di questo progetto.
Io, peraltro, condivido questa ricerca con un amico-collega che è Matteo Facchinelli, con cui abbiamo fondato appunto Architectural Research Workshop, il cui nome non è casuale, appunto perché vuole unire il tema dell’artigianalità e dell’attenzione al dettaglio, alla costruzione e alla ricerca della speculazione pratico - teorica.
Questo tema si concretizza per noi nell’esplorazione e nella costruzione di un dialogo tra luoghi, tipi edilizi, forme, tecniche e modelli spaziali. Un approccio che investe ambiti multidisciplinari, guardando all’arte, alla scultura contemporanea o comunque moderna di autori come Oteiza o Chillida, che spesso utilizzano un metodo di avvicinamento alla forma legato all’idea di mono-matericità, all’idea di scavo, di complessità e plasticità di elementi che ritrovano un’unità attraverso la complessità delle differenze. Ci affascina un’idea di classicismo contemporaneo, di astrazione e matericità, di articolazione formale che si deforma in rapporto ai luoghi.
Anna Rita EmiliDa diversi anni conosco e seguo la tua architettura. In particolare, oltre alle soluzioni architettoniche che per certi aspetti trovo innovative, mi piace la dimensione controllabile dei tuoi progetti. Negli ultimi anni i grandi progetti urbani hanno catturato l’attenzione dei grandi architetti. Si sono abbandonati gli aspetti compositivi a cui ti riferivi, l’idea della costruzione e del dettaglio. Il dettaglio è una cosa importantissima perché entra a pieno titolo all’interno del progetto vero; un buon dettaglio vuol dire una buona architettura. Questo aspetto rappresenta una tua particolarità rispetto al panorama architettonico sia italiano che internazionale così incentrato su lavori che hanno una dimensione quasi di pianificazione della città. Mi riferisco ad esempio agli ultimi progetti per Milano.
Camillo Botticini Devo dire che, in architettura, progettare a tutte le scale di intervento ha una sua specificità. Noi in questi ultimi anni abbiamo avuto modo di sviluppare due progetti molto interessanti alla scala urbana: il primo è il progetto per una città a Sud di Shangai, la città di Jinshan, che abbiamo progettato con un consorzio di progettisti milanesi. Il secondo, più recente, ha riguardato il recupero degli scali ferroviari di Bergamo; un’area molto grande di un milione di metri quadrati, con trecentocinquantamila metri quadrati di sviluppo costruito, che sta per entrare nella fase esecutiva di trasformazione sostanziale di quest’area. Questo fa capire che sia nel caso della progettazione di un intervento di grande scala, sia nella realizzazione del manufatto più piccolo, in realtà, tutto in fondo è dettaglio. Cioè tutti gli aspetti del progetto hanno un principio di fondo, ci deve essere una relazione tra le cose. Quindi il problema è semplicemente entrare nelle cose, guardarle nel loro specifico e costruire una risposta che riesca a ricondurle all’interno di un’idea generale. La prima cosa è capire quale sia l’idea di città contemporanea, quali i temi connessi alla mobilità, alla sostenibilità, ai flussi, alla caratterizzazione qualitativa dello spazio aperto, e come definiamo i luoghi dell’abitare residenziale e le architetture istituzionali. Centrale diviene capire come i diversi spazi entrino in relazione tra loro. Analizzando nello specifico ogni componente urbana si verifica l’elevata complessità dei diversi sistemi interagenti. Il ruolo dell’architetto è diventare il sintetizzatore delle complessità portate dagli specialisti; una sorta di direttore d’orchestra che pone in relazione diversi saperi finalizzandoli a una forma finale di espressione delle diverse e anche contraddittorie istanze.
Anna Rita EmiliPerò a mio avviso le architetture che hanno dato inizio a delle innovazioni vere e proprie, a delle sperimentazioni, sono sempre state espresse attraverso una scala relativamente piccola, come sappiamo dai nostri maestri a cominciare da Le Corbusier. In realtà credo che la sperimentazione vera parta sempre dal tema della casa.
Camillo Botticini A volte la riflessione su un tema molto piccolo è in grado di dare una risposta a problematiche molto più ampie, sia dal punto di vista tipologico, di contenuto, che dal punto di vista formale. Qualsiasi sperimentazione è più difficile da applicare a una scala ampia; questo perché ci sono condizioni di difficoltà, di gestione e anche di investimenti che possono invece essere più facilmente controllabili negli interventi di piccola dimensione.
In alcuni casi abbiamo avuto l’opportunità, soprattutto sul tema dell’abitare - un ambito su cui stiamo lavorando e sperimentando molto - di approfondire un’idea di casa ben precisa. Recentemente abbiamo consegnato un concorso per una società che chiedeva di immaginare abitazioni tenendo conto della condizione post pandemica, sia nell’ottica di una trasformazione di edifici esistenti, sia in relazione a nuove architetture. Quindi ci siamo concentrati sull’idea di uno spazio domestico che veda come tema centrale la soglia tra interno ed esterno. Al di là della caratterizzazione dell’alloggio, la trasformazione dell’esistente (pensiamo alle esperienze francesi di Lacaton & Vassal) passa attraverso una riconfigurazione che realizza una sorta di “wrapping” esterno agli edifici in cui gli spazi intermedi diventano molto generosi: sono logge abitabili, anche bioclimatiche, che contribuiscono a rideterminare sia il carattere esterno dell’edificio sia il modo di vivere l’alloggio. Questa idea dello spazio soglia è un po’ il tema su cui oggi si può lavorare. Gran parte dei progetti che stiamo sviluppando, a differenti scale dimensionali (dal quartiere al singolo edificio), indagano questo tema. Recentemente abbiamo vinto un concorso per un quartiere, a Crescenzago vicino Milano, dove abbiamo posto l’attenzione alle nuove forme dell’abitare: dal social housing, al co-living, al senior living, sino allo student housing. Queste nuove modalità certamente richiedono la capacità di immaginare nuovi spazi domestici diversi da quelli tradizionali, dove il tema dei servizi, dell’integrazione di funzioni complementari, della qualità dello spazio aperto, sono componenti determinanti l’identità degli interventi.
Ludovico RomagniMi riaggancio a quest’ultima parte della riflessione perché, in effetti, ci sono dei temi formali e dei caratteri distributivi che ricorrono nei tuoi progetti. Mi riferisco ad esempio all’uso del patio che hai utilizzato già in uno dei tuoi primi progetti, gli alloggi Aler a Castenedolo, ma anche al patio aperto dell’Alps Villa, ed anche in questo edificio. Il controllo del rapporto tra interno ed esterno, lo spazio intermedio sembrano un po’ i tuoi temi preferiti.
Camillo Botticini Si, a mio avviso una delle cose che ha caratterizzato da un punto di vista spaziale la mia ricerca sull’architettura è sempre stata l’archetipo del recinto. Questo è uno dei temi che mi ha sempre affascinato dal punto di vista della costruzione dello spazio: non c’è spazio se non c’è misura. Per costruire la misura dobbiamo definire un perimetro; il recinto che sia aperto, osmotico, eroso, credo sia la forma fondamentale per la costruzione e l’identificazione di uno spazio. Tra i problemi delle città contemporanee vi è l’indeterminazione spaziale che vede oggetti galleggianti nel nulla, che fluttuano senza un rapporto l’uno con l’altro, senza relazioni né con il paesaggio né con le infrastrutture. La definizione di una relazione intrinseca all’abitare che si propaga e si misura in un ambito più ampio credo sia il fondamento del nostro lavoro come progettisti dello spazio abitato.
Ludovico RomagniParlaci di questo edificio, come avete ottenuto l’incarico, qualche aneddoto, i caratteri formali, distributivi, i materiali.
Camillo Botticini Questo è un progetto che ha avuto un processo molto lungo di realizzazione, perché nasce nel 2005 con un concorso vinto e una gestazione complessa dovuta ad una grottesca gestione degli appalti pubblici in rapporto a ricorsi tra imprese appaltatrici.
Ci sono voluti otto anni prima che venisse costruito. Dal 2005 siamo arrivati al 2013. Quando ci siamo approcciati al tema (insieme a me ha lavorato un gruppo di giovani architetti molto bravi) c’è stata la consapevolezza che un impianto sportivo dovesse essere un’architettura urbana.
L’opera è collocata in un contesto strutturato e non poteva essere il classico oggetto ubiquitario, disposto casualmente in un lotto come spesso succede per gli impianti sportivi quasi sempre concepiti come macchine celibi, oggetti assolutamente autoreferenziali.
Questo è anche un po’ il fondamento metodologico di tutto il nostro agire progettuale. L’idea è stata quella di collocare un volume, dalle misure quasi classiche (84X42X9) con una scala altimetrica simile a quella degli edifici che vi sono all’intorno, capace di realizzare una trasformazione radicale del carattere del luogo basandosi su un principio classico di estrema astrazione e mono-matericità, quasi fosse la rovina di un antico edifico termale.
La continuità materica sia all’interno che all’esterno vede l’edificio come una grande massa scavata, porosa (fatto che rafforza questa idea) che dialoga e costruisce relazioni con gli ambiti urbani all’intorno conformando la sua impronta a terra. Per questo l’ingresso è una parte scavata con una loggia che introduce alla tribuna per il pubblico; uno scavo centrale conduce invece al nucleo di ingresso e verso gli spogliatoi che si strutturano su tre livelli in posizione baricentrica. Il bando prevedeva la realizzazione di tre piscine interne, di cui una molto grande per la pallanuoto con una tribuna da 800 posti, e di altre tre piscine esterne. Bisognava che le varie componenti dialogassero in maniera introversa all’interno dell’intero complesso piuttosto che all’esterno verso il fronte della città; per cui abbiamo previsto una grande vetrata che aprisse il più possibile la percezione visiva con il giardino.
I materiali del progetto sono stati il luogo, le relazioni, il paesaggio, il colore del rivestimento che si rivolge all’orizzonte del Parco dei Colli. Volevo un’architettura silenziosa, che tendesse a dissolvere la propria identità ma al tempo stesso si potesse trasformare in una sorta di magnete, un elemento in grado di costruire una micro urbanità. Ogni progetto lavora e contiene contraddizioni, istanze e caratteri diversi. Qui volevamo costruire un edificio che avesse un carattere di architettura civile, di architettura urbana, pubblica. Un’architettura anche rivolta al paesaggio collinare che funge da orizzonte.
Anna Rita EmiliVorrei parlare di linguaggio architettonico. Analizzando le tue opere trovo difficoltà a trovare un filo conduttore sotto il profilo linguistico. Mentre i tuoi insegnamenti, più o meno, sono stati molto chiari, Belotti sul razionalismo, Crotti con l’esperienza della tendenza e quindi con linguaggi architettonici molto codificati, molto impregnanti, trovo invece che le tue architetture, peraltro molto belle, non abbiano questo filo conduttore. È un dato che riscontro sia nei progetti meno recenti che in quelli attuali. Che cosa lega da questo punto di vista, per esempio, la Casa sul lago Orta alla Claw House. Sono tutte e due opere recentissime, credo del 2017. Cosa dici a riguardo?
Camillo BotticiniSe si guardano con attenzione i progetti, credo vi siano due fasi che hanno organizzato il mio lavoro. La prima si conclude forse con le case a patio che ho realizzato a Castenedolo. Qui la mia architettura era pensata formalmente per sistemi che mettessero in contrappunto sequenze di elementi lineari e astratti ad un ritmo sequenziale di componenti. L’idea di ritmo, ordine, sequenza, ombra e luce erano la base dei principi compositivi di molte opere. A un certo punto scopro, facendo un viaggio in Spagna -in una mostra per me illuminante al Reina Sofia- Jorge Oteiza. Da quel momento ho iniziato a pensare alla forma come ad un oggetto compatto lavorato per scavo, per traslazioni, per variazioni e scorrimento delle parti. Proprio con questo progetto ho inaugurato questa linea di ricerca che continua ancora oggi, con una certa omogeneità, soprattutto dal punto di vista delle infinite possibilità elaborative applicate all’architettura. Per tornare alla tua domanda, il progetto della Claw House è riconducibile alla seconda linea di ricerca, all’idea di costruzione dell’oggetto che scaturisce da poligoni interrelati capaci di ricondurre a una forma unitaria. Una sorta di origami che si ritrova anche nella Alps Villa, dove è sempre il recinto ciò che riporta la forma all’idea fondativa dell’abitare. La casa al lago Orta nasce invece dalla necessità di recuperare un progetto fatto da un altro progettista: il cliente non era contento e mi ha chiesto di intervenire su un volume definito con una piattaforma che già prefigurava i caratteri generali dell’opera. Io ho cercato di costruire una relazione con il suolo, di definire plasticamente e monomatericamente il volume superiore. Se lo si guarda con attenzione, in realtà, le componenti espressive linguistiche sono simili a quelle delle altre due case. Il principio è diverso perché non parte da un’idea di inclusione dello spazio ma da un oggetto singolo collocato su un piano. Un aspetto che ho trovato comunque interessante e che ho assunto come presupposto del progetto.
Anna Rita EmiliDal punto di vista della genesi del progetto invece, esiste una matrice: hai citato il luogo come un elemento importante in ogni tuo progetto. Come viene sviluppato poi il processo, quali sono gli altri elementi che intervengono? Esiste un filo conduttore in ciascun progetto?
Camillo Botticini In architettura, per ogni tipologia, esiste una precisa vocazione legata all’uso, da cui si strutturano modi che tendono a diventare canonici. Per cui se si progetta una biblioteca, un aeroporto, un ospedale, una scuola o una palestra, la logica di organizzazione delle relazioni definisce molte componenti del progetto. Aumentando la complessità del sistema queste relazioni divengono sempre più stringenti. Il progetto risolve, partendo da una analitica organizzazione dello spazio, il rapporto con una forma derivata da scelte legate al luogo e all’identità che si vuole conferire alle relazioni tra le diverse componenti. Se esiste una relativa neutralità tra forma e contenuto, per cui qualsiasi forma può essere adattata, al tempo stesso permangono nuclei immanenti a ogni specifico uso. Progettando, gli aspetti teorici tornano inevitabilmente. Il luogo indica delle potenzialità, individua dove aprire gli sguardi, come orientare le aperture, dove chiudere, dove aprire, dove sia più significativo disporre le funzioni, come costruire le relazioni interne tra gli spazi, le gerarchie, gli ingressi, le connessioni verticali, gli spazi più significativi, gli spazi serviti e gli spazi serventi. Il progetto è un processo aperto; quando si rimane legati a convinzioni troppo nette si rischia di applicare una formula preconfezionata, qualcosa che viene predeterminato tipologicamente. È quello che tendono a fare le società di ingegneria per cui l’ospedale esiste già come macchina e viene collocato in qualunque luogo, le scuole esistono già come sistemi di aule e servizi e vengono collocate in qualunque luogo, i centri natatori esistono già come oggetti che funzionano al loro interno e vengono disposti uguali in qualunque luogo. Il problema è l’inversione del processo: partire dal luogo per poi capire come questi elementi possono essere ripensati in funzione del luogo stesso. Allo stesso tempo significa capire in che modo le relazioni di funzionamento interne del sistema possono essere criticamente ripensate. In questo modo l’architetto può essere non un confezionatore di forme, ma un soggetto in grado di capire come rideterminare e caratterizzare i diversi ambiti di spazio. L’architettura ha implicitamente un paradosso: comprendere un luogo per cambiarlo. Quindi nel momento in cui lo cambi, inevitabilmente costruisci e trasformi quel luogo. È un’operazione paradossale; l’architettura non può essere mimetica, perché l’architettura esiste, e quindi nel momento in cui esiste, cambia le condizioni di riferimento.
Ludovico RomagniQual è il tuo rapporto con la Firmitàs, con la tecnologia, sia dal punto di vista strutturale che di risposta ai nuovi clusters della sostenibilità e della transizione ecologica?
Camillo Botticini Il tema della sostenibilità è un tema centrale a prescindere dall’architettura. La compromissione del pianeta è un dato oggettivo che tocchiamo con mano per le problematiche legate all’inquinamento, alle trasformazioni insediative incontrollate. Questo è un aspetto importantissimo soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove ci sono intere megalopoli che crescono senza qualità, servizi, spazi collettivi. Senza soffermarsi poi sulla trasformazione violenta delle periferie italiane degli anni ‘50, ‘60, ‘60, che in qualche modo restano come strutture permanenti nelle quali viviamo. Quindi capire come rideterminare un equilibrio, un rapporto tra sistemi infrastrutturali, sistemi insediativi, sistemi ambientali generali, è una competenza, una consapevolezza dalla quale non possiamo prescindere. Così come il tema della sostenibilità in termini di equilibrio energetico degli edifici. Però penso anche che siano tutti aspetti appartenenti ai fondamenti dell’architettura. Non è necessario che un’architettura per essere sostenibile debba avere degli alberi che la coprono integralmente. Questo può esser un approccio manifesto; alcuni architetti come Boeri hanno fatto di questo aspetto una bandiera con una logica e una coerenza che in parte apprezzo e trovo intelligente e che comunque è una scelta poetica. Senza voler radicalizzare un pensiero come questo, che ha una sua fondatezza, ci sono tanti modi diversi di pensare il rapporto con il paesaggio e con l’ambiente senza che l’architettura debba dissolversi in esso. L’architettura può costruire identità molto forti, può costruire luoghi urbani, può immaginare il modo con cui noi vogliamo vivere. Questo approccio caratterizza molti esempi positivi in Europa. Sta a noi capire, assumendo tutti i vincoli che la complessità del mondo contemporaneo determina, i fondamenti per l’agire progettuale. Io credo che questo sia determinante; non è il rifugio in un accademismo autoreferenziale che risolve i problemi del mondo, non lo è nemmeno la tendenza di dissolvere la disciplina in altri ambiti: Utilitàs, Firmitàs, Venustàs, sono categorie che vanno sistematicamente rideterminate in relazione all’assunzione di nuovi vincoli che la complessità del mondo ci fornisce.
Ludovico RomagniChe pensi di questa pratica diffusa da molti architetti di fornire concepts alle società di ingegneria che in qualche modo concretizzano l’idea?
Camillo Botticini Ci sono due modalità di vedere il rapporto con le società di ingegneria: da un lato ci sono società di ingegneria che sono macchine per produrre cose e che hanno cancellato l’opzione qualitativa. Io penso al dramma delle opere pubbliche italiane, per esempio, dove il sistema vede prevalere il processo rispetto all’esito finale (cioè la qualità dell’oggetto di architettura). Questo sistema, che è grottesco, genera mostri. Un esempio: tutte le scuole italiane sono realizzate da poche società che hanno curriculum con centinaia di scuole realizzate, e che realizzano con modalità standard, indifferenti a ogni relazione con i luoghi e con i contesti specifici, e alla qualità formale e costruttiva del manufatto. Emerge quindi un altro tema: la mancanza di una legge sull’architettura intesa come legge sull’architettura pubblica. D’altro canto, vi sono invece società di ingegneria che fanno della ricerca sulla qualità delle componenti, sulla sostenibilità dal punto di vista del funzionamento impiantistico e in generale, della qualità e del benessere degli edifici, un campo di indagine molto interessante. Qui vi sono esperti capaci di dare un contributo specifico sulle componenti ingegneristiche che sono elementi determinanti e strumento fondamentale per l’architettura.
Ludovico RomagniNella tua vita professionale hai avuto diversi studi, hai collaborato con più figure e adesso hai fondato lo studio ARW. Avete una quantità di incarichi impressionante. Come siete organizzati e come aggredite il mercato, come fate ad avere tutti questi incarichi? Avete tre sedi, a Parigi, a Brescia e a Milano. Come riesci a gestire questa quantità di clienti e a controllare tutti questi progetti?
Camillo Botticini Il tema di fondo è che in questi ultimi anni, fortunatamente, in Italia si stanno distinguendo alcune città che offrono molte occasioni di progettazione. Milano, ad esempio, si sta configurando come un incubatore di opportunità. Qui gli investitori molto spesso sono i primi a ricercare interlocutori progettuali in grado di dare una risposta qualitativa a un problema. Nonostante l’ottica sia speculativa, per chi progetta è un’occasione per dare una risposta qualificata. Va detto che molti degli interlocutori che si trovano a dirigere le società che investono sono tecnici competenti, spesso architetti o ex architetti. Questo rende più semplice trovare una committenza in grado di capire quale possa essere il contributo di un architetto e come possa fare la differenza nell’esito. Rispetto all’organizzazione, oggi uno studio deve avere una struttura ben precisa con persone competenti in grado di controllare all’interno la complessità del progetto. Deve essere come un’azienda in cui ci sono figure diverse che lavorano alla ricerca, alla produzione e al marketing, declinando queste componenti al fine di fare architettura e non economia. La metamorfosi necessaria per l’architetto del ventunesimo secolo sta nella capacità di continuare a essere un artigiano che lavora con i materiali della costruzione, ma al tempo stesso deve organizzare la propria struttura con persone in grado di coprire tutti i ruoli. Il tema di fondo è “cosa si vuole fare”? Qual è l’obiettivo? Qual è la finalità? È capire il rapporto tra il fine e i mezzi che servono per ottenere un determinato risultato. Nel nostro caso è la volontà di riuscire a fare dei progetti di architettura dotati di autenticità, che non siano la copia di modelli o riferimenti altrui, pratica che trovo dilagante in molte delle opere anche dei più blasonati architetti italiani.
Ludovico RomagniQuindi non partecipate a molti concorsi di progettazione, selezionate direttamente la committenza.
Camillo BotticiniI concorsi sono una delle strategie per realizzare le opere. In Italia, purtroppo, i concorsi sono molto spesso degli espedienti falliti. Io penso di aver partecipato a tantissimi concorsi, almeno un centinaio; l’ultimo quello della regione Sicilia il cui esito controverso non rassicura sulla pratica di questo istituto. Credo che uno dei problemi principali in Italia sia far diventare, come avviene in Francia, il concorso uno strumento per realizzare sistematicamente la qualità dell’architettura pubblica, perché i cittadini meritano infrastrutture, ospedali, scuole, municipi, spazi pubblici di qualità.
Abbiamo incontrato Camillo Botticini nel centro natatorio di Brescia il 02 Luglio 2021.
Anna Rita Emili Camillo Botticini è un architetto di spicco all’interno del panorama architettonico italiano e internazionale. Ha realizzato molte opere e ha vinto numerosi premi: il Premio Inarch, il premio Medaglia d’oro dell’Architettura nel 2012 e molti altri. Siamo all’interno di una delle sue opere più recenti e interessanti, il centro Natatorio a Brescia. Camillo come è iniziata la tua ricerca, quali sono stati i tuoi riferimenti diretti e indiretti, le collaborazioni più significative?
Camillo Botticini Mi sono laureato al Politecnico di Milano nel 1990 con Sergio Crotti e da subito ho avuto modo di collaborare con lui nelle attività didattiche e di ricerca. Poi ho collaborato con Guido Canali a Parma e successivamente con Giandomenico Belotti, un architetto meno noto ma di straordinario talento sia nell’ambito dell’architettura che in quello del design. Queste prime esperienze sono state determinanti soprattutto perché si inserivano in un periodo in cui l’architettura era caratterizzata da un atteggiamento essenzialmente legato a un’idea di scenografia urbana con una tendenza anti-costruttiva. Invece gli architetti con cui ho iniziato a collaborare avevano una specificità diversa che era quella di andare alla radice dell’aspetto edificatorio, del dettaglio, della definizione dell’architettura attraverso le sue caratteristiche specifiche. Non di un’architettura vista puramente sotto l’aspetto formale e ideologico. In quel periodo questo rifiuto di un rapporto diretto con l’aspetto realizzativo aveva caratterizzato anche l’ambito accademico, non tanto in termini pragmatici quanto, piuttosto, in termini di specificità della disciplina. Belotti, invece, era un architetto appartenente addirittura alla generazione precedente a quella dei miei docenti, ed era erede della migliore tradizione razionalista milanese che sublimava poeticamente la tettonica degli edifici. Canali era, ed è, un architetto legato direttamente a una tradizione del fare tipicamente emiliana ma anche alla cultura architettonica del nord Europa e quindi all’astrazione e alla silenziosità dell’architettura che si faceva, e si fa, attraverso la costruzione. Crotti aveva questa idea di architettura politecnica, di un’architettura che fosse erede della grande tradizione del saper costruire, tipicamente milanese peraltro.
Anna Rita Emili Come queste figure di riferimento hanno poi interagito effettivamente con la tua architettura? C’è stato qualche tema particolare, qualcosa di specifico che all’inizio, in qualche modo, ha caratterizzato la tua ricerca?
Camillo Botticini Quello che mi interessava era capire come l’architettura si costruisce attraverso le sue componenti. L’architettura è un processo complesso che richiede ovviamente un aspetto ideativo generale legato al rapporto con il sito. Questa era la parte più interessante delle sperimentazioni appartenenti al mondo accademico, perché lì c’era una cultura attenta alle ragioni dei luoghi, ai principi insediativi quali elementi generatori del progetto. Erano le tematiche più significative della ricerca architettonica italiana degli anni ’70 e ’80 sulla città e sul paesaggio; in particolare della scuola gregottiana a cui faceva riferimento culturalmente anche Sergio Crotti, pur con distinguo molto specifici visti dall’interno e meno evidenti visti a distanza. A me interessava, in particolare, entrare dentro l’architettura, e il suo farsi. Ho rivolto lo sguardo verso quei paesi che, in quel momento in Europa, erano maggiormente in grado di sviluppare una ricerca specifica sul progetto costruito in relazione ai luoghi. Mi sembrava che in quella fase storica, la ricerca degli architetti portoghesi e spagnoli, come Carrilho da Graça, Souto de Moura, Esteban Bonell, della scuola catalana, fosse in grado di pensare l’architettura come fatto urbano e simultaneamente spaziale, tipologico e costruttivo di grande qualità. Un’architettura con dei contenuti che lavoravano su uno spazio misurato per il fruitore, dove tutte le componenti concorrevano a definire un’architettura autentica, intensa, e non un suo simulacro.
Tutti questi aspetti erano presenti in quel tipico pragmatismo che ancora oggi caratterizza questi due paesi, dove non si è mai perduto il rapporto tra architettura, ricerca e professione; cosa che in Italia, invece, era avvenuta e che tutt’ora permane anche se in misura minore. Questa capacità di incidere nella trasformazione della realtà, anche grazie allo strumento del concorso inteso come modo per definire con precisone un’idea di abitare e costruire, mi sembrava una peculiarità imprescindibile per quello che penso, ancora oggi, debba essere un’opera di architettura.
Ludovico Romagni Il nostro focus è quello di tentare di ricostruire i tratti di una ipotetica identità dell’architettura contemporanea italiana. Cerchiamo degli architetti che sono riusciti, a nostro avviso, a radicare in un progetto realizzato un pensiero teorico. Quali sono i temi che affollano la scatola bianca del tuo pensiero teorico?
Camillo Botticini Questa è una domanda centrale, perché dal mio punto di vista l’architettura ha alcuni elementi da cui parte come metodo e come processo. Molto spesso qualcuno ti chiede: “tu di cosa ti occupi? Qual è la tua specificità?”. Io credo che l’architettura sia una specificità. C’è la tendenza a far coincidere l’attività dell’architettura con un tipo specifico, mentre invece, come quasi tutti noi abbiamo imparato, e come credo che sia nel portato migliore della tradizione della ricerca architettonica italiana, l’architettura deve essere vista come un metodo di lavoro. In primo luogo, è la capacità di guardare ai luoghi come elementi generatori di una trasformazione. Questo è il punto di partenza di qualsiasi tipo di progetto. E lo dico perché il luogo è qualcosa di ambiguo. Il luogo non necessariamente determina il progetto in senso di vincolo. Il luogo a volte non esiste. Purini diceva una cosa che mi ha sempre colpito e cioè che l’architettura a volte deve auto-contestualizzarsi. Nonostante la stratificazione storico-geografica che caratterizza il nostro paese, oggi accade spesso che i luoghi vengano progressivamente cancellati e “disidentificati”. Quindi il problema dell’architettura è quello di generare luoghi, di costruire spazi, e soprattutto di lavorare nell’intervallo che c’è tra le cose e negli spazi aperti. Il problema è quello di progettare architetture dotate di consapevolezza del rapporto con il luogo specifico, con gradi di trasformazione che possono essere minimi, quando i luoghi sono sovradeterminati per segni, storia, contenuti, e massimi, quando invece l’architettura deve costruire una nuova identità. Chiaramente il tema è: qual è questa nuova identità? Evidentemente è un’espressione che rimanda a sua volta a un’interpretazione legata ai caratteri del luogo e a una ricerca che ha una connotazione individuale.
Si può lavorare applicando una matrice indifferenziata a qualsiasi luogo: alcuni architetti, ad esempio Gehry, costruiscono comunque con un linguaggio e con un approccio che caratterizza fortemente la loro architettura in qualsiasi contesto. Altri invece ricercano un’architettura che legge le specificità storiche e cerca di interpretare il luogo attraverso una modalità che non è sempre uguale. Evidentemente costruire un luogo come questo, che è una periferia storica degli anni ’60, non è uguale a costruire nel centro storico di Milano, piuttosto che a Siena, o in una banlieue parigina. Lo dico perché questo è il punto di partenza di ogni atto progettuale. Dopodiché ognuno di noi svolge una ricerca, come nel caso specifico di questo progetto.
Io, peraltro, condivido questa ricerca con un amico-collega che è Matteo Facchinelli, con cui abbiamo fondato appunto Architectural Research Workshop, il cui nome non è casuale, appunto perché vuole unire il tema dell’artigianalità e dell’attenzione al dettaglio, alla costruzione e alla ricerca della speculazione pratico - teorica.
Questo tema si concretizza per noi nell’esplorazione e nella costruzione di un dialogo tra luoghi, tipi edilizi, forme, tecniche e modelli spaziali. Un approccio che investe ambiti multidisciplinari, guardando all’arte, alla scultura contemporanea o comunque moderna di autori come Oteiza o Chillida, che spesso utilizzano un metodo di avvicinamento alla forma legato all’idea di mono-matericità, all’idea di scavo, di complessità e plasticità di elementi che ritrovano un’unità attraverso la complessità delle differenze. Ci affascina un’idea di classicismo contemporaneo, di astrazione e matericità, di articolazione formale che si deforma in rapporto ai luoghi.
Anna Rita Emili Da diversi anni conosco e seguo la tua architettura. In particolare, oltre alle soluzioni architettoniche che per certi aspetti trovo innovative, mi piace la dimensione controllabile dei tuoi progetti. Negli ultimi anni i grandi progetti urbani hanno catturato l’attenzione dei grandi architetti. Si sono abbandonati gli aspetti compositivi a cui ti riferivi, l’idea della costruzione e del dettaglio. Il dettaglio è una cosa importantissima perché entra a pieno titolo all’interno del progetto vero; un buon dettaglio vuol dire una buona architettura. Questo aspetto rappresenta una tua particolarità rispetto al panorama architettonico sia italiano che internazionale così incentrato su lavori che hanno una dimensione quasi di pianificazione della città. Mi riferisco ad esempio agli ultimi progetti per Milano.
Camillo Botticini Devo dire che, in architettura, progettare a tutte le scale di intervento ha una sua specificità. Noi in questi ultimi anni abbiamo avuto modo di sviluppare due progetti molto interessanti alla scala urbana: il primo è il progetto per una città a Sud di Shangai, la città di Jinshan, che abbiamo progettato con un consorzio di progettisti milanesi. Il secondo, più recente, ha riguardato il recupero degli scali ferroviari di Bergamo; un’area molto grande di un milione di metri quadrati, con trecentocinquantamila metri quadrati di sviluppo costruito, che sta per entrare nella fase esecutiva di trasformazione sostanziale di quest’area. Questo fa capire che sia nel caso della progettazione di un intervento di grande scala, sia nella realizzazione del manufatto più piccolo, in realtà, tutto in fondo è dettaglio. Cioè tutti gli aspetti del progetto hanno un principio di fondo, ci deve essere una relazione tra le cose. Quindi il problema è semplicemente entrare nelle cose, guardarle nel loro specifico e costruire una risposta che riesca a ricondurle all’interno di un’idea generale. La prima cosa è capire quale sia l’idea di città contemporanea, quali i temi connessi alla mobilità, alla sostenibilità, ai flussi, alla caratterizzazione qualitativa dello spazio aperto, e come definiamo i luoghi dell’abitare residenziale e le architetture istituzionali. Centrale diviene capire come i diversi spazi entrino in relazione tra loro. Analizzando nello specifico ogni componente urbana si verifica l’elevata complessità dei diversi sistemi interagenti. Il ruolo dell’architetto è diventare il sintetizzatore delle complessità portate dagli specialisti; una sorta di direttore d’orchestra che pone in relazione diversi saperi finalizzandoli a una forma finale di espressione delle diverse e anche contraddittorie istanze.
Anna Rita Emili Però a mio avviso le architetture che hanno dato inizio a delle innovazioni vere e proprie, a delle sperimentazioni, sono sempre state espresse attraverso una scala relativamente piccola, come sappiamo dai nostri maestri a cominciare da Le Corbusier. In realtà credo che la sperimentazione vera parta sempre dal tema della casa.
Camillo Botticini A volte la riflessione su un tema molto piccolo è in grado di dare una risposta a problematiche molto più ampie, sia dal punto di vista tipologico, di contenuto, che dal punto di vista formale. Qualsiasi sperimentazione è più difficile da applicare a una scala ampia; questo perché ci sono condizioni di difficoltà, di gestione e anche di investimenti che possono invece essere più facilmente controllabili negli interventi di piccola dimensione.
In alcuni casi abbiamo avuto l’opportunità, soprattutto sul tema dell’abitare - un ambito su cui stiamo lavorando e sperimentando molto - di approfondire un’idea di casa ben precisa. Recentemente abbiamo consegnato un concorso per una società che chiedeva di immaginare abitazioni tenendo conto della condizione post pandemica, sia nell’ottica di una trasformazione di edifici esistenti, sia in relazione a nuove architetture. Quindi ci siamo concentrati sull’idea di uno spazio domestico che veda come tema centrale la soglia tra interno ed esterno. Al di là della caratterizzazione dell’alloggio, la trasformazione dell’esistente (pensiamo alle esperienze francesi di Lacaton & Vassal) passa attraverso una riconfigurazione che realizza una sorta di “wrapping” esterno agli edifici in cui gli spazi intermedi diventano molto generosi: sono logge abitabili, anche bioclimatiche, che contribuiscono a rideterminare sia il carattere esterno dell’edificio sia il modo di vivere l’alloggio. Questa idea dello spazio soglia è un po’ il tema su cui oggi si può lavorare. Gran parte dei progetti che stiamo sviluppando, a differenti scale dimensionali (dal quartiere al singolo edificio), indagano questo tema. Recentemente abbiamo vinto un concorso per un quartiere, a Crescenzago vicino Milano, dove abbiamo posto l’attenzione alle nuove forme dell’abitare: dal social housing, al co-living, al senior living, sino allo student housing. Queste nuove modalità certamente richiedono la capacità di immaginare nuovi spazi domestici diversi da quelli tradizionali, dove il tema dei servizi, dell’integrazione di funzioni complementari, della qualità dello spazio aperto, sono componenti determinanti l’identità degli interventi.
Ludovico Romagni Mi riaggancio a quest’ultima parte della riflessione perché, in effetti, ci sono dei temi formali e dei caratteri distributivi che ricorrono nei tuoi progetti. Mi riferisco ad esempio all’uso del patio che hai utilizzato già in uno dei tuoi primi progetti, gli alloggi Aler a Castenedolo, ma anche al patio aperto dell’Alps Villa, ed anche in questo edificio. Il controllo del rapporto tra interno ed esterno, lo spazio intermedio sembrano un po’ i tuoi temi preferiti.
Camillo Botticini Si, a mio avviso una delle cose che ha caratterizzato da un punto di vista spaziale la mia ricerca sull’architettura è sempre stata l’archetipo del recinto. Questo è uno dei temi che mi ha sempre affascinato dal punto di vista della costruzione dello spazio: non c’è spazio se non c’è misura. Per costruire la misura dobbiamo definire un perimetro; il recinto che sia aperto, osmotico, eroso, credo sia la forma fondamentale per la costruzione e l’identificazione di uno spazio. Tra i problemi delle città contemporanee vi è l’indeterminazione spaziale che vede oggetti galleggianti nel nulla, che fluttuano senza un rapporto l’uno con l’altro, senza relazioni né con il paesaggio né con le infrastrutture. La definizione di una relazione intrinseca all’abitare che si propaga e si misura in un ambito più ampio credo sia il fondamento del nostro lavoro come progettisti dello spazio abitato.
Ludovico Romagni Parlaci di questo edificio, come avete ottenuto l’incarico, qualche aneddoto, i caratteri formali, distributivi, i materiali.
Camillo Botticini Questo è un progetto che ha avuto un processo molto lungo di realizzazione, perché nasce nel 2005 con un concorso vinto e una gestazione complessa dovuta ad una grottesca gestione degli appalti pubblici in rapporto a ricorsi tra imprese appaltatrici.
Ci sono voluti otto anni prima che venisse costruito. Dal 2005 siamo arrivati al 2013. Quando ci siamo approcciati al tema (insieme a me ha lavorato un gruppo di giovani architetti molto bravi) c’è stata la consapevolezza che un impianto sportivo dovesse essere un’architettura urbana.
L’opera è collocata in un contesto strutturato e non poteva essere il classico oggetto ubiquitario, disposto casualmente in un lotto come spesso succede per gli impianti sportivi quasi sempre concepiti come macchine celibi, oggetti assolutamente autoreferenziali.
Questo è anche un po’ il fondamento metodologico di tutto il nostro agire progettuale. L’idea è stata quella di collocare un volume, dalle misure quasi classiche (84X42X9) con una scala altimetrica simile a quella degli edifici che vi sono all’intorno, capace di realizzare una trasformazione radicale del carattere del luogo basandosi su un principio classico di estrema astrazione e mono-matericità, quasi fosse la rovina di un antico edifico termale.
La continuità materica sia all’interno che all’esterno vede l’edificio come una grande massa scavata, porosa (fatto che rafforza questa idea) che dialoga e costruisce relazioni con gli ambiti urbani all’intorno conformando la sua impronta a terra. Per questo l’ingresso è una parte scavata con una loggia che introduce alla tribuna per il pubblico; uno scavo centrale conduce invece al nucleo di ingresso e verso gli spogliatoi che si strutturano su tre livelli in posizione baricentrica. Il bando prevedeva la realizzazione di tre piscine interne, di cui una molto grande per la pallanuoto con una tribuna da 800 posti, e di altre tre piscine esterne. Bisognava che le varie componenti dialogassero in maniera introversa all’interno dell’intero complesso piuttosto che all’esterno verso il fronte della città; per cui abbiamo previsto una grande vetrata che aprisse il più possibile la percezione visiva con il giardino.
I materiali del progetto sono stati il luogo, le relazioni, il paesaggio, il colore del rivestimento che si rivolge all’orizzonte del Parco dei Colli. Volevo un’architettura silenziosa, che tendesse a dissolvere la propria identità ma al tempo stesso si potesse trasformare in una sorta di magnete, un elemento in grado di costruire una micro urbanità. Ogni progetto lavora e contiene contraddizioni, istanze e caratteri diversi. Qui volevamo costruire un edificio che avesse un carattere di architettura civile, di architettura urbana, pubblica. Un’architettura anche rivolta al paesaggio collinare che funge da orizzonte.
Anna Rita Emili Vorrei parlare di linguaggio architettonico. Analizzando le tue opere trovo difficoltà a trovare un filo conduttore sotto il profilo linguistico. Mentre i tuoi insegnamenti, più o meno, sono stati molto chiari, Belotti sul razionalismo, Crotti con l’esperienza della tendenza e quindi con linguaggi architettonici molto codificati, molto impregnanti, trovo invece che le tue architetture, peraltro molto belle, non abbiano questo filo conduttore. È un dato che riscontro sia nei progetti meno recenti che in quelli attuali. Che cosa lega da questo punto di vista, per esempio, la Casa sul lago Orta alla Claw House. Sono tutte e due opere recentissime, credo del 2017. Cosa dici a riguardo?
Camillo Botticini Se si guardano con attenzione i progetti, credo vi siano due fasi che hanno organizzato il mio lavoro. La prima si conclude forse con le case a patio che ho realizzato a Castenedolo. Qui la mia architettura era pensata formalmente per sistemi che mettessero in contrappunto sequenze di elementi lineari e astratti ad un ritmo sequenziale di componenti. L’idea di ritmo, ordine, sequenza, ombra e luce erano la base dei principi compositivi di molte opere. A un certo punto scopro, facendo un viaggio in Spagna -in una mostra per me illuminante al Reina Sofia- Jorge Oteiza. Da quel momento ho iniziato a pensare alla forma come ad un oggetto compatto lavorato per scavo, per traslazioni, per variazioni e scorrimento delle parti. Proprio con questo progetto ho inaugurato questa linea di ricerca che continua ancora oggi, con una certa omogeneità, soprattutto dal punto di vista delle infinite possibilità elaborative applicate all’architettura. Per tornare alla tua domanda, il progetto della Claw House è riconducibile alla seconda linea di ricerca, all’idea di costruzione dell’oggetto che scaturisce da poligoni interrelati capaci di ricondurre a una forma unitaria. Una sorta di origami che si ritrova anche nella Alps Villa, dove è sempre il recinto ciò che riporta la forma all’idea fondativa dell’abitare. La casa al lago Orta nasce invece dalla necessità di recuperare un progetto fatto da un altro progettista: il cliente non era contento e mi ha chiesto di intervenire su un volume definito con una piattaforma che già prefigurava i caratteri generali dell’opera. Io ho cercato di costruire una relazione con il suolo, di definire plasticamente e monomatericamente il volume superiore. Se lo si guarda con attenzione, in realtà, le componenti espressive linguistiche sono simili a quelle delle altre due case. Il principio è diverso perché non parte da un’idea di inclusione dello spazio ma da un oggetto singolo collocato su un piano. Un aspetto che ho trovato comunque interessante e che ho assunto come presupposto del progetto.
Anna Rita Emili Dal punto di vista della genesi del progetto invece, esiste una matrice: hai citato il luogo come un elemento importante in ogni tuo progetto. Come viene sviluppato poi il processo, quali sono gli altri elementi che intervengono? Esiste un filo conduttore in ciascun progetto?
Camillo Botticini In architettura, per ogni tipologia, esiste una precisa vocazione legata all’uso, da cui si strutturano modi che tendono a diventare canonici. Per cui se si progetta una biblioteca, un aeroporto, un ospedale, una scuola o una palestra, la logica di organizzazione delle relazioni definisce molte componenti del progetto. Aumentando la complessità del sistema queste relazioni divengono sempre più stringenti. Il progetto risolve, partendo da una analitica organizzazione dello spazio, il rapporto con una forma derivata da scelte legate al luogo e all’identità che si vuole conferire alle relazioni tra le diverse componenti. Se esiste una relativa neutralità tra forma e contenuto, per cui qualsiasi forma può essere adattata, al tempo stesso permangono nuclei immanenti a ogni specifico uso. Progettando, gli aspetti teorici tornano inevitabilmente. Il luogo indica delle potenzialità, individua dove aprire gli sguardi, come orientare le aperture, dove chiudere, dove aprire, dove sia più significativo disporre le funzioni, come costruire le relazioni interne tra gli spazi, le gerarchie, gli ingressi, le connessioni verticali, gli spazi più significativi, gli spazi serviti e gli spazi serventi. Il progetto è un processo aperto; quando si rimane legati a convinzioni troppo nette si rischia di applicare una formula preconfezionata, qualcosa che viene predeterminato tipologicamente. È quello che tendono a fare le società di ingegneria per cui l’ospedale esiste già come macchina e viene collocato in qualunque luogo, le scuole esistono già come sistemi di aule e servizi e vengono collocate in qualunque luogo, i centri natatori esistono già come oggetti che funzionano al loro interno e vengono disposti uguali in qualunque luogo. Il problema è l’inversione del processo: partire dal luogo per poi capire come questi elementi possono essere ripensati in funzione del luogo stesso. Allo stesso tempo significa capire in che modo le relazioni di funzionamento interne del sistema possono essere criticamente ripensate. In questo modo l’architetto può essere non un confezionatore di forme, ma un soggetto in grado di capire come rideterminare e caratterizzare i diversi ambiti di spazio. L’architettura ha implicitamente un paradosso: comprendere un luogo per cambiarlo. Quindi nel momento in cui lo cambi, inevitabilmente costruisci e trasformi quel luogo. È un’operazione paradossale; l’architettura non può essere mimetica, perché l’architettura esiste, e quindi nel momento in cui esiste, cambia le condizioni di riferimento.
Ludovico Romagni Qual è il tuo rapporto con la Firmitàs, con la tecnologia, sia dal punto di vista strutturale che di risposta ai nuovi clusters della sostenibilità e della transizione ecologica?
Camillo Botticini Il tema della sostenibilità è un tema centrale a prescindere dall’architettura. La compromissione del pianeta è un dato oggettivo che tocchiamo con mano per le problematiche legate all’inquinamento, alle trasformazioni insediative incontrollate. Questo è un aspetto importantissimo soprattutto nei paesi in via di sviluppo dove ci sono intere megalopoli che crescono senza qualità, servizi, spazi collettivi. Senza soffermarsi poi sulla trasformazione violenta delle periferie italiane degli anni ‘50, ‘60, ‘60, che in qualche modo restano come strutture permanenti nelle quali viviamo. Quindi capire come rideterminare un equilibrio, un rapporto tra sistemi infrastrutturali, sistemi insediativi, sistemi ambientali generali, è una competenza, una consapevolezza dalla quale non possiamo prescindere. Così come il tema della sostenibilità in termini di equilibrio energetico degli edifici. Però penso anche che siano tutti aspetti appartenenti ai fondamenti dell’architettura. Non è necessario che un’architettura per essere sostenibile debba avere degli alberi che la coprono integralmente. Questo può esser un approccio manifesto; alcuni architetti come Boeri hanno fatto di questo aspetto una bandiera con una logica e una coerenza che in parte apprezzo e trovo intelligente e che comunque è una scelta poetica. Senza voler radicalizzare un pensiero come questo, che ha una sua fondatezza, ci sono tanti modi diversi di pensare il rapporto con il paesaggio e con l’ambiente senza che l’architettura debba dissolversi in esso. L’architettura può costruire identità molto forti, può costruire luoghi urbani, può immaginare il modo con cui noi vogliamo vivere. Questo approccio caratterizza molti esempi positivi in Europa. Sta a noi capire, assumendo tutti i vincoli che la complessità del mondo contemporaneo determina, i fondamenti per l’agire progettuale. Io credo che questo sia determinante; non è il rifugio in un accademismo autoreferenziale che risolve i problemi del mondo, non lo è nemmeno la tendenza di dissolvere la disciplina in altri ambiti: Utilitàs, Firmitàs, Venustàs, sono categorie che vanno sistematicamente rideterminate in relazione all’assunzione di nuovi vincoli che la complessità del mondo ci fornisce.
Ludovico Romagni Che pensi di questa pratica diffusa da molti architetti di fornire concepts alle società di ingegneria che in qualche modo concretizzano l’idea?
Camillo Botticini Ci sono due modalità di vedere il rapporto con le società di ingegneria: da un lato ci sono società di ingegneria che sono macchine per produrre cose e che hanno cancellato l’opzione qualitativa. Io penso al dramma delle opere pubbliche italiane, per esempio, dove il sistema vede prevalere il processo rispetto all’esito finale (cioè la qualità dell’oggetto di architettura). Questo sistema, che è grottesco, genera mostri. Un esempio: tutte le scuole italiane sono realizzate da poche società che hanno curriculum con centinaia di scuole realizzate, e che realizzano con modalità standard, indifferenti a ogni relazione con i luoghi e con i contesti specifici, e alla qualità formale e costruttiva del manufatto. Emerge quindi un altro tema: la mancanza di una legge sull’architettura intesa come legge sull’architettura pubblica. D’altro canto, vi sono invece società di ingegneria che fanno della ricerca sulla qualità delle componenti, sulla sostenibilità dal punto di vista del funzionamento impiantistico e in generale, della qualità e del benessere degli edifici, un campo di indagine molto interessante. Qui vi sono esperti capaci di dare un contributo specifico sulle componenti ingegneristiche che sono elementi determinanti e strumento fondamentale per l’architettura.
Ludovico Romagni Nella tua vita professionale hai avuto diversi studi, hai collaborato con più figure e adesso hai fondato lo studio ARW. Avete una quantità di incarichi impressionante. Come siete organizzati e come aggredite il mercato, come fate ad avere tutti questi incarichi? Avete tre sedi, a Parigi, a Brescia e a Milano. Come riesci a gestire questa quantità di clienti e a controllare tutti questi progetti?
Camillo Botticini Il tema di fondo è che in questi ultimi anni, fortunatamente, in Italia si stanno distinguendo alcune città che offrono molte occasioni di progettazione. Milano, ad esempio, si sta configurando come un incubatore di opportunità. Qui gli investitori molto spesso sono i primi a ricercare interlocutori progettuali in grado di dare una risposta qualitativa a un problema. Nonostante l’ottica sia speculativa, per chi progetta è un’occasione per dare una risposta qualificata. Va detto che molti degli interlocutori che si trovano a dirigere le società che investono sono tecnici competenti, spesso architetti o ex architetti. Questo rende più semplice trovare una committenza in grado di capire quale possa essere il contributo di un architetto e come possa fare la differenza nell’esito. Rispetto all’organizzazione, oggi uno studio deve avere una struttura ben precisa con persone competenti in grado di controllare all’interno la complessità del progetto. Deve essere come un’azienda in cui ci sono figure diverse che lavorano alla ricerca, alla produzione e al marketing, declinando queste componenti al fine di fare architettura e non economia. La metamorfosi necessaria per l’architetto del ventunesimo secolo sta nella capacità di continuare a essere un artigiano che lavora con i materiali della costruzione, ma al tempo stesso deve organizzare la propria struttura con persone in grado di coprire tutti i ruoli. Il tema di fondo è “cosa si vuole fare”? Qual è l’obiettivo? Qual è la finalità? È capire il rapporto tra il fine e i mezzi che servono per ottenere un determinato risultato. Nel nostro caso è la volontà di riuscire a fare dei progetti di architettura dotati di autenticità, che non siano la copia di modelli o riferimenti altrui, pratica che trovo dilagante in molte delle opere anche dei più blasonati architetti italiani.
Ludovico Romagni Quindi non partecipate a molti concorsi di progettazione, selezionate direttamente la committenza.
Camillo Botticini I concorsi sono una delle strategie per realizzare le opere. In Italia, purtroppo, i concorsi sono molto spesso degli espedienti falliti. Io penso di aver partecipato a tantissimi concorsi, almeno un centinaio; l’ultimo quello della regione Sicilia il cui esito controverso non rassicura sulla pratica di questo istituto. Credo che uno dei problemi principali in Italia sia far diventare, come avviene in Francia, il concorso uno strumento per realizzare sistematicamente la qualità dell’architettura pubblica, perché i cittadini meritano infrastrutture, ospedali, scuole, municipi, spazi pubblici di qualità.
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