Abbiamo incontrato Enrico Molteni nella ‘Casa per un regista’ a Casatenovo (Lecco) il 31 ottobre 2019
Anna Rita Emili Siamo con Enrico Molteni, architetto milanese, all’interno di una delle sue opere più belle la “Casa per un regista” realizzata nel 2013, in collaborazione con Andrea Liverani. Enrico Molteni oltre ad essere un architetto molto bravo ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, insegna ora nella facoltà di architettura di Genova ed è stato redattore per circa dieci anni della rivista Casabella.Allora Enrico raccontaci un po’ degli anni della tua formazione e quali sono stati i tuoi maestri, i tuoi riferimenti durante gli anni della tua ricerca.
Enrico Molteni Da studente potrei dire che il mio maestro è stato Louis Kahn che ho conosciuto durante il primo anno di studi al Politecnico di Milano; in particolare mi ero appassionato del Salk Institute per una pubblicazione che avevo curato già all’epoca e poi delle sue conversazioni con gli studenti, di quel suo modo di parlare dell'architettura come se fosse una religione. Nella vita reale, dopo la laurea, ho avuto una forte influenza prima da Elias Torres, con cui ho lavorato a Barcellona per tre anni, e sicuramente da Alvaro Siza a cui ho dedicato un lungo periodo di ricerca pubblicando dei libri e curando delle mostre. Ma ho continuamente nuove passioni, sono curioso e mi piace molto guardare, imparare dal lavoro degli altri e dalla storia. Credo che il rapporto con gli altri e con la storia sia un rapporto necessario, imprescindibile; ogni tema, ogni questione ha sempre già una sua storia. Come diceva Francesco Venezia, credo anche io che “prendere il testimone in mano sia il punto più alto di originalità”. D'altro canto ho compiuto da poco 50 anni, e trovo che questa età rappresenti l’inizio dell’"età d’oro". Mi piacerebbe a questo proposito citare un’altra frase che mette in chiaro la questione del rapporto con il maestro, per tornare alla domanda iniziale. La citazione è di Gio Ponti: ”Non è da cercare il maestro nel passato, neppure nel presente e nemmeno attenderlo nel futuro: ciascuno di noi è il maestro.” E con tutta la modestia necessaria credo che di strada ne esista solo una: la propria.
Anna Rita Emili Sono assolutamente d’accordo. Come definiresti la tua ricerca progettuale e su quali temi architettonici lavori principalmente, dai tuoi primi anni di lavoro fino ad oggi?
Enrico Molteni Direi che la mia ricerca progettuale è una ricerca puramente architettonica, una ricerca dentro l’architettura. Non mi ha mai convinto chi mette altro dentro al progetto per sostenerne le ragioni. Io credo che la qualità di un progetto possa esistere solo se inerente all’architettura. Il tema su cui ho lavorato e su cui lavora un architetto, anche se può apparire molto generico, è essenzialmente lo spazio; l’architettura è spazio. Quindi, seppur ovvio, la ricerca che ho svolto e che continuo a sviluppare è fondata sullo spazio. Per essere un po’ meno generico posso dire che a me interessano molto gli elementi dell’architettura: qualche anno fa, in un ciclo didattico all'Accademia Mendrisio, ho lavorato con grande soddisfazione sugli elementi. La visione dell’architettura e degli elementi dell’architettura, per esempio basata sui 4 elementi fondamentali della natura (ripresa da Semper nel suo testo teorico del 1851), può essere ancora una buona teoria a cui potersi rifare. La stessa biennale di Koolhaas ha riportato l’attenzione sui fondamenti, nel suo caso con una ricerca sui quindici elementi. La visione di Semper mi è sempre piaciuta molto perché legata ai quattro elementi della natura: terra, aria, acqua e fuoco. Il suolo e quindi il basamento, il pavimento, le fondazioni e tutto ciò che è legato alla terra. L’aria e quindi la chiusura, gli elementi della costruzione che limitano ed entrano in rapporto con l’esterno e con la luce: i muri, le finestre, le porte. L’acqua, da cui la necessità di protezione, di erigere un tetto. L’elemento però fondamentale per Semper è il fuoco, inteso come "focolare", cioè quello che sta dentro e che potrebbe essere inteso come lo spazio, lo spazio per la vita, che deve essere protetto dagli elementi dell'architettura. Su questi elementi io credo che ci sia sempre una ricerca aperta. Anche questa casa possiamo prenderla come un piccolo esempio. Il lavoro tra muro e tetto è stato un tema centrale. Per fare altri esempi, di recente ho progettato una scuola reinterpretando il sistema trilitico attraverso l’uso del legno dando forma ad una sorta di ‘serliana linea’, basato sul tema del pilastro-colonna binata-architrave. Oppure in un progetto per un concorso ad Aosta il tema del muro, che è stato pensato come muro abitato, vuoto e sospeso, ribaltando la pesantezza del muro in leggerezza. Insomma, ci sono degli elementi su cui si concentra la mia ricerca, sempre legati a quello che può essere ogni volta il loro ruolo dentro alla logica proprio di ciascun progetto.
Ludovico Romagni Un progetto nasce sempre da un’esigenza, da una domanda. L’idea è il punto di partenza verso la risposta progettuale. Nella ricerca di questa idea tu prediligi sempre l’aspetto bidimensionale, la pianta piuttosto che lo spazio. Sembra quasi che debba essere la pianta a trasmettere la tensione che attraversa la figura.
Enrico MolteniDiciamo che sono un fan della pianta. Mi spiego un po’ meglio: ogni architettura si innalza dalla base e si sviluppa secondo la regola impressa dalla pianta. Detto così, la pianta è chiaramente la prima cosa. Tuttavia la pianta non la intendo come una disposizione funzionale di attività ma più che altro come un’entità in sé, come una parte del lavoro che ha una sua autonomia, e che costituisce il territorio proprio dell’architetto, il suo ambito specifico, la sua patria, cioè il ‘luogo’ dove la sua scrittura è indecifrabile agli altri. Quindi difendo molto lo strumento della pianta e quanto un architetto debba essere in grado di vedere lo spazio nella pianta, così come il musicista legge lo spartito e sente la musica nella sua testa. Questa capacità di immaginazione individuale e mentale, cioè di far scaturire forme e colori dal semplice allineamento di linee su un foglio bianco, è un aspetto molto importante che va difeso e praticato. Detto in un altro modo, un po’ più accademico, la pianta è anche il necessario incontro tra il tuo progetto e il tipo (quindi la storia), e tra il tuo progetto e il sito (quindi il luogo). Anche per questo la pianta è centrale. Se prendiamo l’esempio di questo lavoro la pianta è una pianta a croce greca che disposta in questo terreno, caratterizzato da condizioni specifiche qui date da gruppi di alberature, si deforma modificando quel modello di riferimento. Mi piace parlare anche della pianta della fondazione poiché è il momento in cui tutta la costruzione scarica a terra e si delinea un’architettura in termini strutturali. La struttura è un altro tema importante su cui ho sempre lavorato e continuo a lavorare. Ma nel modo di operare non c’è la pianta e basta: diciamo che è la prima cosa, ma poi arriva subito il modello. Il modello, inteso come strumento di lavoro, entra sempre in gioco ed è decisivo. Il modello come "momento della verità" in cui la pianta e la sezione generano lo spazio e la forma. Questo strumento di lavoro ci aiuta molto anche ad evitare figuracce e a vedere l’errore, come ammoniva già lo stesso Alberti. Nel modello c’è il tutto, anche se sembra un’astrazione, non fa scappare nulla. Se facciamo ancora riferimento a questo lavoro, non vi saprei dire quante piante e quanti modelli siano stati prodotti, decine e decine; è un lavoro in cui questi due strumenti hanno interagito e lavorato assieme. Il terzo punto su cui si chiarisce un progetto, in modo veramente sorprendente, è il momento in cui si affronta la costruzione e il rapporto con la materia. E’ qui che la pura forma si fissa: non è un momento successivo e lo si impara di più con il tempo. Riassumendo: pianta, modello e dettaglio sono i tre momenti che costituiscono la validità o meno di un progetto.
Ludovico Romagni Ovviamente sei lontano dalle architetture autoreferenziali, cangianti che affollano le attuali pubblicazioni di architettura e proprio per questo ci interessa il tuo lavoro, in quella essenzialità che restituisce un rapporto chiaro tra teoria e pratica del progetto. Parli della dimensione reale dell’opera realizzata, della concretezza, della tecnica e la affianchi all’esistenza di una ‘scatola bianca’ dove c’è il bagaglio teorico che affianca la realtà. Che cosa c’è dentro questa ‘scatola bianca’?
Enrico Molteni Domanda interessante. Condivido questa visione in cui si sta un po’ dentro e un po’ fuori la realtà. Mi è sempre piaciuto pensare, citando Kahn, a queste due stanze e al fatto che il progetto possa essere la porta che unisce e divide queste due stanze: da una parte la realtà con i condizionamenti evidenti (la normativa, le richieste funzionali, il tempo, il budget ecc) e dall’altra il tuo pensiero e il lavoro di ricerca. Concordo con questa necessità di lavorare in queste due stanze. Sul rapporto pratica-teoria, proprio ieri discutevo con mia figlia di dieci anni, poiché il suo professore di ginnastica le ha fatto una lezione teorica, e concordavamo sul fatto che, per esempio, anche per fare il pane abbiamo bisogno di conoscere una ricetta, gli strumenti, gli ingredienti e avere un’idea di che tipo di pane fare. Quindi questo rapporto tra pratica e teoria è un rapporto necessario in molte attività e che però non ha mai, secondo me, una chiara divisione tra un prima e un dopo; non c’è prima una teoria e poi una pratica ma sono entrambi imprescindibili e si alimentano. Cioè l’opera è il risultato in cui la pratica qualifica la teoria e viceversa. Una questione di fondo, che porta per me anche alla relazione tra il ‘cosa’, il ‘come’ e il ‘perché’. Il ‘cosa’ è dato dal mondo, dall’esterno, ma credo che sia sempre il ‘come’ che qualifichi il ‘cosa’. Il ‘perché’ è molto utile nell’attività di progetto, in cui l’idea non arriva dal cielo ma in questa capacità infinita di pensare-fare-guardare, ossia, nell’attività che poi ti porta a trovare quell’idea, e che si nutre di ‘perché’. Tuttavia più che "idea" mi piace usare un altro termine che è "logica" perché "idea" rimanda un po’ ad una sorta di illuminazione, artistica, personale, mentre "logica" è un termine più condivisibile, più comprensibile. E’ un termine che scaturisce proprio da questo processo, pensare-fare-guardare, e arriva ad un punto in cui il cosa e tutti quelli che sono i perché devono sparire verso l’unica cosa che conta, il ‘come’. L'opera. Io ho un forte interesse anche per l’architettura non costruita, ovvero disegnata e pensata, ma credo che, come diceva Kahn, l’architettura esiste perché esistono le opere di architettura. Il ‘come’ è ciò che conta e che qualifica qualsiasi teoria, e qualsiasi fare. Tornando invece alla questione tra reale e mentale, su cui abbiamo discusso prima, le due dimensioni coesistono sia nel momento in cui si lavora e quindi si progetta ma anche una volta che si osserva l’architettura (e dunque l’opera). L'esperienza diretta dell'architettura, voglio dire, è un’esperienza con si muove al contempo sia a livello fisico e sensoriale che a livello mentale. Un’architettura ha sempre una pregnanza metafisica e astratta, ha un suo valore che prescinde da tutte le condizioni che l'hanno prodotta e che la rende stabile al di là di tutto; però ogni opera ha una qualità solo se è realmente costruita, in un dato luogo e in un tempo determinato.
Anna Rita EmiliOsservando le tue architetture dall’origine, pare di percepire una trasformazione da un’architettura caratterizzata da un sistema ortogonale ad un altro in cui invece prevale la linea spezzata. Io credo che questa casa sia un po’ la testimonianza di questo. Se tu sei d’accordo? a cosa è dovuto questo passaggio?
Enrico Molteni Questa doppia lettura può essere stata frutto della compresenza di tendenze diverse verso una geometria o un’altra, in funzione del tema e del luogo. Non saprei essere sicuro nell’affermare che oggi sia stata presa una strada piuttosto che un’altra. Io credo che, guardando a ritroso il lavoro, faccio sempre fatica a vedere un tema riconoscibile o uno stile, oppure, detto con altre parole, ad affermare che esista una ricerca per stabilire un certo canone estetico. E’ un lavoro aperto in questi termini.
Ludovico RomagniComunque mi sembra chiaro che preferisci le forme geometriche pure. Il contesto però ha una grande importanza: in questo edificio le alberature hanno determinato le fratture, le inclinazioni dei muri verso quegli origami di cui parla Biraghi. Però queste inclinazioni arbitrarie sono sempre legate ad un vincolo geometrico: ribaltamenti, rotazioni di gradi precisi… Cosa garantisce il vincolo geometrico?
Enrico Molteni La decisione di lavorare con la presenza delle alberature, che era la qualità più importante per il committente, ha portato a questa geometria veramente arbitraria. La pianta ha le geometrie più aleatorie che abbia mai utilizzato e questa è la sua logica, ovvero, la logica dell’accidentalità e dell’arbitrarietà. Tuttavia la geometria è un aspetto molto importante per me. E’ anche un lascito formativo: da un lato Elias Torres, che è un talento della geometria spezzata, e il lascito dell'uso della riga parallela e della squadra regolabile: si prendevano, si ribaltavano, si sovrapponevano lucidi, per cui la complessità del tracciato era una delle grandi qualità che si aveva in quel momento e con quel modo di lavorare. Se guardiamo poi all’opera di Siza, a come riesce a dominare la complessità con grande destrezza geometrica e con una grande precisione... D'altro canto però Kahn è stato il mio primo grande incontro: e lui è il quadrato! Quest’anno per dire, il programma che ho proposto al primo anno a Genova è improntato tutto sulla forma del quadrato. Vorrei fare un nuovo ciclo di laboratori, come per gli elementi, sulle geometrie di base. Quindi da un lato c’è il lascito delle mie esperienze formative e dall’altro un’appartenenza ad un mondo di geometrie più pure, tenute insieme da una esigenza di precisione. D’altra parte credo che la geometria in sé sia, come già diceva Vitruvio, la prima competenza dell’architetto e ritengo sia importante essere molto competenti in questa scienza razionale che assicura al progetto dei punti di certezza. Siza diceva che “l’architettura è l’arte di dominare l’incertezza” e in quello stato di incertezza del fare un progetto, che è anche necessaria ed estremamente utile e proficua, uno strumento di valido supporto è proprio la geometria in quanto, come affermò lo stesso Einstein parlando di fisica teorica, la geometria euclidea è un’opera della nostra mente a cui l’umanità deve moltissimo perché ha dato sicurezza a tutto il progresso scientifico successivo, proprio per il suo essere precisa e certa. Non per quello è semplice, anzi, la geometria assicura qualsiasi grado di complessità e anche oggi, anche utilizzando certi software parametrici, la conoscenza della geometria è sempre un punto di ragionamento indispensabile.
Anna Rita EmiliLa forma architettonica e lo spazio architettonico sono elementi che, a mio avviso, assumono nelle tue opere un carattere induttivo, ossia un punto di partenza che però non arriva a formalismi eccessivi. Però ti chiedo: in un momento in cui l’etica torna a sensibilizzare i nostri animi, in una contemporaneità in cui i fenomeni legati all’ambiente, al sociale, alla comunicazione diventano sempre più contingenti, secondo te vale la pena lavorare ancora sul concetto di spazio astratto o di arbitrarietà della forma?
Enrico Molteni Credo che ancora oggi e sia necessaria e indispensabile proprio per la sua capacità di rappresentare il mondo e le aspirazioni più profonde dell’uomo, più di altri prodotti. Ha la capacità di rappresentare il suo pensiero in quell’epoca determinata. Quindi sì, credo che lavorare sull’architettura pensando all’architettura in questi termini sia ancora l’unica strada: anzi, difendo con convinzione questa posizione. Non credo a chi sostiene invece la propria architettura facendo uso di questioni politiche, ambientali, sociali, o di qualsiasi tipo esse siano, in quanto non sono aspetti capaci di generare senso in termini puramente architettonici. Non credo assolutamente poi che ci siano state delle epoche in cui le cose sono state più semplici; credo che ogni epoca abbia posto davanti a sé delle questioni da affrontare. Per essere ancora più esplicito, io non credo che per Bramante o Mies fosse più facile che non per noi. Credo invece che in qualsiasi epoca sia indispensabile la presenza dell’architetto come autore ovvero, penso che l’autorialità sia l’unica risposta possibile alla complessità e alle trasformazioni che stiamo vivendo, comprese quelle ambientali e sociali che hai menzionato. Per cui questa è la risposta che darei; anzi, vorrei che ci fosse un modo per difenderla davanti a pressioni sempre più forti sul senso che ha oggi l’architettura. L’architetto deve mantenere chiaro il suo ruolo come autore e lo si può fare anche in gruppo, perché sicuramente il progetto è un’attività interdisciplinare. Ci servono tanti consulenti ma questi gruppi di lavoro non vanno molto avanti se non c’è la presenza dell’architetto come autore.
Anna Rita Emili Che significato ha per te la tecnologia e quali sono i materiali con cui preferisci lavorare?
Enrico Molteni Io direi che la questione è per me sempre più importante, forse anche dopo l’esperienza didattica a Mendrisio e anche a causa dell’età. Penso che della triade vitruviana la firmitas sia la questione fondamentale del progetto. Mi ricollego a quanto dicevo prima: la scorciatoia sempre più praticata di avvalersi di società di ingegneria che elaborano gli esecutivi relegando l’architetto sempre più al ruolo di un visionario, uno stratega, un concept designer, porta alla rinuncia di un aspetto del progetto che è importantissimo. La firmitas non è lo studio di un dettaglio per garantire che non deve entrare l’acqua ma tutt’altro; è la scoperta che si può fare attraverso la costruzione. Un buon architetto non rinuncia a questa parte del progetto anzi, necessariamente deve avere delle competenze piuttosto alte sia in riferimento agli aspetti strutturali, sia di costruzione che di messa in opera. Le competenze di un architetto, se vuole utilizzare tutti gli aspetti della triade e farne quindi uso in termini creativi, devono guardare alla costruzione perché proprio nella costruzione si scopre molto di più di quanto si possa immaginare. E quindi la firmitas o la questione tecnico-costruttiva è per me un ambito di indagine che fa differenza e che farà sempre la differenza. Attraverso la costruzione l'idea si converte in presenza, in corpo. Ad esempio, riguardo i materiali, io non credo che la scelta sia una questione legata allo stile o al linguaggio; non penso di aver fatto la scelta di utilizzare un unico materiale in tutti i miei progetti anzi, quasi sempre ne utilizzo uno diverso. Questo è molto bello perché mi permette di diventare ogni volta un piccolo specialista di quel tipo di materiale. Vorrei però che ogni opera o progetto avesse un solo materiale e fosse pensata principalmente con un solo materiale. Nei miei progetti questa riduzione ad un solo materiale c’è sempre stata; continuo a vederla come un aspetto fondamentale verso il raggiungimento di un obiettivo fondamentale: credere che ogni progetto debba essere unico perché ha una sua logica, una non due. Questa unitarietà e totalità si può raggiungere non in un riduzionismo minimalista ma controllando la complessità e la contraddizione attraverso l’unitarietà della costruzione. Un grande esempio potrebbe essere Lewerentz, l’utilizzo del mattone per le sue chiese che sono complessissime, oppure le chiese ortodosse in Russia con quelle forme favolose e che sono fatte tutte e solo in legno. Oppure, per citare un esempio contemporaneo più vicino a noi, direi Valerio Olgiati e all’uso esclusivo del cemento armato nelle sue opere. Questa radicalizzazione credo sia molto utile per chi crede che un edificio, o un’opera di architettura, abbia come fondamento il fatto di essere una cosa, un pezzo pur complesso e contraddittorio che sia, ma uno. Anche Venturi nel suo manifesto gentile, nel suo amare la complessità e la contraddizione ammonisce che proprio tali qualità richiedano uno sforzo ancora maggiore verso l’unità.
Ludovico RomagniAppare evidente come nei tuoi progetti ci sia la necessità di alimentare questa relazione tra pensiero e pratica del progetto: da un lato la alimenti attraverso la partecipazione ai concorsi di architettura nei quali svolgi una sorta di allenamento continuo, dall’altro la sviluppi attraverso la volontà di non abbandonare l’esperienza didattica e di ricerca. Hai insegnato ad Alghero, a Milano, poi c’è stata l’esperienza a Mendrisio e adesso sei diventato ricercatore a Genova. Che cosa pensi dell’insegnamento dell’architettura nelle facoltà italiane e cosa cambieresti verso il come si diventa architetti?
Enrico Molteni Io penso che per diventare architetti bisogna fare progetti e penso che ogni progetto sia un mattone con cui si va a costruire la nostra competenza. Quindi sono contento che hai parlato di questa enorme quantità di concorsi, sono sicuramente più di cento. Continuo a farli come esercizio di progetto e anche perché è fondamentale farsi trovare preparati; le occasioni arrivano o svaniscono per qualsiasi motivo. Per quanto riguarda la didattica, l’esperienza di Mendrisio è stata fortemente legata al progetto. Credo che qualsiasi università per avere successo nella didattica debba avere due cose: la prima è l’organizzazione, la seconda chi insegna. La cosa che mi sorprende è che in termini di organizzazione della didattica in Italia si faccia ancora così fatica e questa cosa appaia ancora piuttosto lacunosa. Il centro dell’organizzazione è il calendario che dovrebbe essere la cosa più semplice del mondo e invece in Italia è così difficile da organizzare; questo porta la didattica a perdere qualità. Tutti i corsi dovrebbero essere di 14 settimane e dovrebbero iniziare e finire tutti lo stesso giorno. Tutti i corsi di progettazione dovrebbero finire nello stesso momento in modo che tutti gli esami siano in un unico momento dell’anno in cui ci si confronta; nessuno ha un giorno più dell’altro. Se tu vuoi invitare qualcuno lo sai tre mesi prima e non tre giorni prima. Chi viene invitato, come chi insegna o impara, può vedere cosa si sta facendo in quella scuola. Quindi il calendario, l’organizzazione della didattica è importante. Ma questo, per esempio, non si riesce a farlo! L’altra questione, la più difficile, è chi insegna. A differenza degli altri Paesi, in Italia ci sono due scuole di pensiero in relazione a chi insegna il progetto: c’è chi crede che per insegnare architettura, progettazione, non basta essere un buon architetto ma devi essere anche un ricercatore o un intellettuale e c’è chi pensa, al contrario, che non devi esserlo o puoi anche non esserlo. Per ora purtroppo prevale la prima idea. Se guardiamo la Spagna o la Svizzera, sono tutti d’accordo sul fatto che sia fondamentale essere un architetto che lavora. Ma non intendo fare la solita litania sulle meraviglie degli altri. A Mendrisio per esempio credo che ci sia una lacuna, perché concentrare tutta la didattica di un semestre su uno specifico progetto, con lo stesso professore senza mai poterne uscire e affrontare la questione in termini anche più generali, senza poter sollevare aspetti magari più teorici, o semplicemente che non siano legati a quella specifica risposta progettuale, io credo che rappresenti un punto di debolezza che invece in Italia non c’è. In Italia i professori più validi supportano il progetto con una ricerca teorica e intellettuale importante. Ma concludo dicendo che se voglio diventare un tuffatore (non necessariamente vincere la medaglia d’oro) avrei tendenzialmente più fiducia in un maestro che sia un buon tuffatore piuttosto di un maestro che conosca bene la storia o la disciplina del tuffo. Di fronte ad un maestro che è un buon tuffatore avrei immediatamente un atteggiamento di fiducia e cercherei di imitare il gesto, un aspetto fondamentale nell’approfondimento. E quindi anche nella progettazione dell’architettura è fondamentale l’apporto di esperienza fornito da chi progetta, chi costruisce e si confronta con la realtà.
Ludovico RomagniCome rivista, Il nostro obiettivo è quello di cercare alcuni aspetti capaci di definire l’identità dell’architettura contemporanea italiana. Nel numero 0 di Enter_Vista Cristiano Toraldo di Francia ci ha detto che l’identità dell’architettura italiana consiste nel non averne, nella mescolanza di forme, colori, relazioni, materiali. Tu hai avuto una lunga esperienza all’estero e nelle tue opere si percepisce un’attenzione verso architetturedi forte identità quali quelle spagnole e portoghesi.Credi che si possano individuare alcuni elementi capaci di definire un’identità dell’architettura contemporanea italiana?
Enrico Molteni E’ una questione bella ed interessante e mi fa piacere che l’abbiate posta come uno degli obiettivi di questa rivista a cui faccio i miei auguri. Porsi la domanda sull’identità dell’architettura italiana mi fa pensare ad un convegno organizzato da Paolo Zermani proprio con questo titolo. Nel mio intervento portai un’immagine che sottolinea proprio quanto è stato già detto da te e Toraldo Di Francia: c’erano tante barche, ciascuna con una rotta. Apparentemente alcune alla deriva, o in balia delle onde, altre che navigano in questo mare, ciascuna con una sua rotta. La visione di queste barche non guidate da un’unica corrente o vento prevalente, ma che navigano su rotte indecifrabili che però risultano essere ciascuna di per se esatta. Questa è un po’ l’immagine che ho dell’architettura italiana: tante eccezionali esperienze autonome tenute insieme dal mare della storia. Ecco, penso che l’architettura italiana abbia una sua identità molto forte e l’abbia sempre avuta se si pensa anche che i grandi architetti in Italia ci sono sempre stati. Architetti capaci di porsi da un lato come intellettuali (abbiamo una tradizione scritta/teorica che non ha equivalenti e che è tuttora presente) e dall’altro di porsi in un rapporto preciso con la storia, preciso nel senso di profondità. Il rapporto con la storia è un rapporto che marca tutta la grande architettura italiana. Alberti, Rossi, Terragni e Libera, per esempio, hanno un rapporto con l’architettura della storia, che non si ritrova negli architetti degli altri paesi. Come nel libro di Biraghi recentemente pubblicato, L'architetto come intellettuale, questa necessità intellettuale allarga il campo e mette sul tavolo la questione del rapporto con la teoria. Solo per citare qualcuno della mia generazione, Pier Vittorio Aureli e i Baukuh sono presenti in questa tradizione: una tradizione che può avere anche momenti eretici come Superstudio o essere più fluida. Quindi, se dal punto di vista dell’espressione architettonica non esiste un’identità, questo è sicuramente un primo aspetto che può essere visto come un tratto distintivo dell’identità architettonica italiana. Dal punto di vista dell’espressione architettonica mi piace questa immagine del mar Mediterraneo e queste barche straordinarie che vi navigano con rotte tutte diverse; basti pensare a esempi straordinari come le case di Bini per Antonioni o la villa Malaparte, entrambe a picco su questo mare, che non riesci a tenere dentro a un ‘vento’ se questo deve essere inteso come un tentativo di definizione di un canone estetico o un percorso teorico condiviso.
Ludovico RomagniSei un post_giovane architetto, hai appena compiuto 50 anni. Un consiglio per i giovani architetti.
Enrico Molteni E’ una bella domanda perché se oggi si vuole avere un ruolo come architetto lo si deve avere come autore. E’ importante parlare e ascoltare tutti: il progetto è un’attività interdisciplinare e non un racconto da scrivere nel chiuso di una stanza. Ma il ruolo dell’architetto come autore è centrale per chi sceglie oggi di impegnarsi in questo bellissimo campo; è necessaria un presa di responsabilità grande. Questo è quello che mi sentirei di consigliare a chi oggi, con forza, vuole assumersi l’impegno di intraprendere questo mestiere: porsi come architetto e non come artista, o concept designer o altro, ma come un architetto autore.
Abbiamo incontrato Enrico Molteni nella ‘Casa per un regista’ a Casatenovo (Lecco) il 31 ottobre 2019
Anna Rita Emili Siamo con Enrico Molteni, architetto milanese, all’interno di una delle sue opere più belle la “Casa per un regista” realizzata nel 2013, in collaborazione con Andrea Liverani. Enrico Molteni oltre ad essere un architetto molto bravo ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, insegna ora nella facoltà di architettura di Genova ed è stato redattore per circa dieci anni della rivista Casabella. Allora Enrico raccontaci un po’ degli anni della tua formazione e quali sono stati i tuoi maestri, i tuoi riferimenti durante gli anni della tua ricerca.
Enrico Molteni Da studente potrei dire che il mio maestro è stato Louis Kahn che ho conosciuto durante il primo anno di studi al Politecnico di Milano; in particolare mi ero appassionato del Salk Institute per una pubblicazione che avevo curato già all’epoca e poi delle sue conversazioni con gli studenti, di quel suo modo di parlare dell'architettura come se fosse una religione. Nella vita reale, dopo la laurea, ho avuto una forte influenza prima da Elias Torres, con cui ho lavorato a Barcellona per tre anni, e sicuramente da Alvaro Siza a cui ho dedicato un lungo periodo di ricerca pubblicando dei libri e curando delle mostre. Ma ho continuamente nuove passioni, sono curioso e mi piace molto guardare, imparare dal lavoro degli altri e dalla storia. Credo che il rapporto con gli altri e con la storia sia un rapporto necessario, imprescindibile; ogni tema, ogni questione ha sempre già una sua storia. Come diceva Francesco Venezia, credo anche io che “prendere il testimone in mano sia il punto più alto di originalità”. D'altro canto ho compiuto da poco 50 anni, e trovo che questa età rappresenti l’inizio dell’"età d’oro". Mi piacerebbe a questo proposito citare un’altra frase che mette in chiaro la questione del rapporto con il maestro, per tornare alla domanda iniziale. La citazione è di Gio Ponti: ”Non è da cercare il maestro nel passato, neppure nel presente e nemmeno attenderlo nel futuro: ciascuno di noi è il maestro.” E con tutta la modestia necessaria credo che di strada ne esista solo una: la propria.
Anna Rita Emili Sono assolutamente d’accordo. Come definiresti la tua ricerca progettuale e su quali temi architettonici lavori principalmente, dai tuoi primi anni di lavoro fino ad oggi?
Enrico Molteni Direi che la mia ricerca progettuale è una ricerca puramente architettonica, una ricerca dentro l’architettura. Non mi ha mai convinto chi mette altro dentro al progetto per sostenerne le ragioni. Io credo che la qualità di un progetto possa esistere solo se inerente all’architettura. Il tema su cui ho lavorato e su cui lavora un architetto, anche se può apparire molto generico, è essenzialmente lo spazio; l’architettura è spazio. Quindi, seppur ovvio, la ricerca che ho svolto e che continuo a sviluppare è fondata sullo spazio. Per essere un po’ meno generico posso dire che a me interessano molto gli elementi dell’architettura: qualche anno fa, in un ciclo didattico all'Accademia Mendrisio, ho lavorato con grande soddisfazione sugli elementi. La visione dell’architettura e degli elementi dell’architettura, per esempio basata sui 4 elementi fondamentali della natura (ripresa da Semper nel suo testo teorico del 1851), può essere ancora una buona teoria a cui potersi rifare. La stessa biennale di Koolhaas ha riportato l’attenzione sui fondamenti, nel suo caso con una ricerca sui quindici elementi. La visione di Semper mi è sempre piaciuta molto perché legata ai quattro elementi della natura: terra, aria, acqua e fuoco. Il suolo e quindi il basamento, il pavimento, le fondazioni e tutto ciò che è legato alla terra. L’aria e quindi la chiusura, gli elementi della costruzione che limitano ed entrano in rapporto con l’esterno e con la luce: i muri, le finestre, le porte. L’acqua, da cui la necessità di protezione, di erigere un tetto. L’elemento però fondamentale per Semper è il fuoco, inteso come "focolare", cioè quello che sta dentro e che potrebbe essere inteso come lo spazio, lo spazio per la vita, che deve essere protetto dagli elementi dell'architettura. Su questi elementi io credo che ci sia sempre una ricerca aperta. Anche questa casa possiamo prenderla come un piccolo esempio. Il lavoro tra muro e tetto è stato un tema centrale. Per fare altri esempi, di recente ho progettato una scuola reinterpretando il sistema trilitico attraverso l’uso del legno dando forma ad una sorta di ‘serliana linea’, basato sul tema del pilastro-colonna binata-architrave. Oppure in un progetto per un concorso ad Aosta il tema del muro, che è stato pensato come muro abitato, vuoto e sospeso, ribaltando la pesantezza del muro in leggerezza. Insomma, ci sono degli elementi su cui si concentra la mia ricerca, sempre legati a quello che può essere ogni volta il loro ruolo dentro alla logica proprio di ciascun progetto.
Ludovico Romagni Un progetto nasce sempre da un’esigenza, da una domanda. L’idea è il punto di partenza verso la risposta progettuale. Nella ricerca di questa idea tu prediligi sempre l’aspetto bidimensionale, la pianta piuttosto che lo spazio. Sembra quasi che debba essere la pianta a trasmettere la tensione che attraversa la figura.
Enrico Molteni Diciamo che sono un fan della pianta. Mi spiego un po’ meglio: ogni architettura si innalza dalla base e si sviluppa secondo la regola impressa dalla pianta. Detto così, la pianta è chiaramente la prima cosa. Tuttavia la pianta non la intendo come una disposizione funzionale di attività ma più che altro come un’entità in sé, come una parte del lavoro che ha una sua autonomia, e che costituisce il territorio proprio dell’architetto, il suo ambito specifico, la sua patria, cioè il ‘luogo’ dove la sua scrittura è indecifrabile agli altri. Quindi difendo molto lo strumento della pianta e quanto un architetto debba essere in grado di vedere lo spazio nella pianta, così come il musicista legge lo spartito e sente la musica nella sua testa. Questa capacità di immaginazione individuale e mentale, cioè di far scaturire forme e colori dal semplice allineamento di linee su un foglio bianco, è un aspetto molto importante che va difeso e praticato. Detto in un altro modo, un po’ più accademico, la pianta è anche il necessario incontro tra il tuo progetto e il tipo (quindi la storia), e tra il tuo progetto e il sito (quindi il luogo). Anche per questo la pianta è centrale. Se prendiamo l’esempio di questo lavoro la pianta è una pianta a croce greca che disposta in questo terreno, caratterizzato da condizioni specifiche qui date da gruppi di alberature, si deforma modificando quel modello di riferimento. Mi piace parlare anche della pianta della fondazione poiché è il momento in cui tutta la costruzione scarica a terra e si delinea un’architettura in termini strutturali. La struttura è un altro tema importante su cui ho sempre lavorato e continuo a lavorare. Ma nel modo di operare non c’è la pianta e basta: diciamo che è la prima cosa, ma poi arriva subito il modello. Il modello, inteso come strumento di lavoro, entra sempre in gioco ed è decisivo. Il modello come "momento della verità" in cui la pianta e la sezione generano lo spazio e la forma. Questo strumento di lavoro ci aiuta molto anche ad evitare figuracce e a vedere l’errore, come ammoniva già lo stesso Alberti. Nel modello c’è il tutto, anche se sembra un’astrazione, non fa scappare nulla. Se facciamo ancora riferimento a questo lavoro, non vi saprei dire quante piante e quanti modelli siano stati prodotti, decine e decine; è un lavoro in cui questi due strumenti hanno interagito e lavorato assieme. Il terzo punto su cui si chiarisce un progetto, in modo veramente sorprendente, è il momento in cui si affronta la costruzione e il rapporto con la materia. E’ qui che la pura forma si fissa: non è un momento successivo e lo si impara di più con il tempo. Riassumendo: pianta, modello e dettaglio sono i tre momenti che costituiscono la validità o meno di un progetto.
Ludovico Romagni Ovviamente sei lontano dalle architetture autoreferenziali, cangianti che affollano le attuali pubblicazioni di architettura e proprio per questo ci interessa il tuo lavoro, in quella essenzialità che restituisce un rapporto chiaro tra teoria e pratica del progetto. Parli della dimensione reale dell’opera realizzata, della concretezza, della tecnica e la affianchi all’esistenza di una ‘scatola bianca’ dove c’è il bagaglio teorico che affianca la realtà. Che cosa c’è dentro questa ‘scatola bianca’?
Enrico Molteni Domanda interessante. Condivido questa visione in cui si sta un po’ dentro e un po’ fuori la realtà. Mi è sempre piaciuto pensare, citando Kahn, a queste due stanze e al fatto che il progetto possa essere la porta che unisce e divide queste due stanze: da una parte la realtà con i condizionamenti evidenti (la normativa, le richieste funzionali, il tempo, il budget ecc) e dall’altra il tuo pensiero e il lavoro di ricerca. Concordo con questa necessità di lavorare in queste due stanze. Sul rapporto pratica-teoria, proprio ieri discutevo con mia figlia di dieci anni, poiché il suo professore di ginnastica le ha fatto una lezione teorica, e concordavamo sul fatto che, per esempio, anche per fare il pane abbiamo bisogno di conoscere una ricetta, gli strumenti, gli ingredienti e avere un’idea di che tipo di pane fare. Quindi questo rapporto tra pratica e teoria è un rapporto necessario in molte attività e che però non ha mai, secondo me, una chiara divisione tra un prima e un dopo; non c’è prima una teoria e poi una pratica ma sono entrambi imprescindibili e si alimentano. Cioè l’opera è il risultato in cui la pratica qualifica la teoria e viceversa. Una questione di fondo, che porta per me anche alla relazione tra il ‘cosa’, il ‘come’ e il ‘perché’. Il ‘cosa’ è dato dal mondo, dall’esterno, ma credo che sia sempre il ‘come’ che qualifichi il ‘cosa’. Il ‘perché’ è molto utile nell’attività di progetto, in cui l’idea non arriva dal cielo ma in questa capacità infinita di pensare-fare-guardare, ossia, nell’attività che poi ti porta a trovare quell’idea, e che si nutre di ‘perché’. Tuttavia più che "idea" mi piace usare un altro termine che è "logica" perché "idea" rimanda un po’ ad una sorta di illuminazione, artistica, personale, mentre "logica" è un termine più condivisibile, più comprensibile. E’ un termine che scaturisce proprio da questo processo, pensare-fare-guardare, e arriva ad un punto in cui il cosa e tutti quelli che sono i perché devono sparire verso l’unica cosa che conta, il ‘come’. L'opera. Io ho un forte interesse anche per l’architettura non costruita, ovvero disegnata e pensata, ma credo che, come diceva Kahn, l’architettura esiste perché esistono le opere di architettura. Il ‘come’ è ciò che conta e che qualifica qualsiasi teoria, e qualsiasi fare. Tornando invece alla questione tra reale e mentale, su cui abbiamo discusso prima, le due dimensioni coesistono sia nel momento in cui si lavora e quindi si progetta ma anche una volta che si osserva l’architettura (e dunque l’opera). L'esperienza diretta dell'architettura, voglio dire, è un’esperienza con si muove al contempo sia a livello fisico e sensoriale che a livello mentale. Un’architettura ha sempre una pregnanza metafisica e astratta, ha un suo valore che prescinde da tutte le condizioni che l'hanno prodotta e che la rende stabile al di là di tutto; però ogni opera ha una qualità solo se è realmente costruita, in un dato luogo e in un tempo determinato.
Anna Rita Emili Osservando le tue architetture dall’origine, pare di percepire una trasformazione da un’architettura caratterizzata da un sistema ortogonale ad un altro in cui invece prevale la linea spezzata. Io credo che questa casa sia un po’ la testimonianza di questo. Se tu sei d’accordo? a cosa è dovuto questo passaggio?
Enrico Molteni Questa doppia lettura può essere stata frutto della compresenza di tendenze diverse verso una geometria o un’altra, in funzione del tema e del luogo. Non saprei essere sicuro nell’affermare che oggi sia stata presa una strada piuttosto che un’altra. Io credo che, guardando a ritroso il lavoro, faccio sempre fatica a vedere un tema riconoscibile o uno stile, oppure, detto con altre parole, ad affermare che esista una ricerca per stabilire un certo canone estetico. E’ un lavoro aperto in questi termini.
Ludovico Romagni Comunque mi sembra chiaro che preferisci le forme geometriche pure. Il contesto però ha una grande importanza: in questo edificio le alberature hanno determinato le fratture, le inclinazioni dei muri verso quegli origami di cui parla Biraghi. Però queste inclinazioni arbitrarie sono sempre legate ad un vincolo geometrico: ribaltamenti, rotazioni di gradi precisi… Cosa garantisce il vincolo geometrico?
Enrico Molteni La decisione di lavorare con la presenza delle alberature, che era la qualità più importante per il committente, ha portato a questa geometria veramente arbitraria. La pianta ha le geometrie più aleatorie che abbia mai utilizzato e questa è la sua logica, ovvero, la logica dell’accidentalità e dell’arbitrarietà. Tuttavia la geometria è un aspetto molto importante per me. E’ anche un lascito formativo: da un lato Elias Torres, che è un talento della geometria spezzata, e il lascito dell'uso della riga parallela e della squadra regolabile: si prendevano, si ribaltavano, si sovrapponevano lucidi, per cui la complessità del tracciato era una delle grandi qualità che si aveva in quel momento e con quel modo di lavorare. Se guardiamo poi all’opera di Siza, a come riesce a dominare la complessità con grande destrezza geometrica e con una grande precisione... D'altro canto però Kahn è stato il mio primo grande incontro: e lui è il quadrato! Quest’anno per dire, il programma che ho proposto al primo anno a Genova è improntato tutto sulla forma del quadrato. Vorrei fare un nuovo ciclo di laboratori, come per gli elementi, sulle geometrie di base. Quindi da un lato c’è il lascito delle mie esperienze formative e dall’altro un’appartenenza ad un mondo di geometrie più pure, tenute insieme da una esigenza di precisione. D’altra parte credo che la geometria in sé sia, come già diceva Vitruvio, la prima competenza dell’architetto e ritengo sia importante essere molto competenti in questa scienza razionale che assicura al progetto dei punti di certezza. Siza diceva che “l’architettura è l’arte di dominare l’incertezza” e in quello stato di incertezza del fare un progetto, che è anche necessaria ed estremamente utile e proficua, uno strumento di valido supporto è proprio la geometria in quanto, come affermò lo stesso Einstein parlando di fisica teorica, la geometria euclidea è un’opera della nostra mente a cui l’umanità deve moltissimo perché ha dato sicurezza a tutto il progresso scientifico successivo, proprio per il suo essere precisa e certa. Non per quello è semplice, anzi, la geometria assicura qualsiasi grado di complessità e anche oggi, anche utilizzando certi software parametrici, la conoscenza della geometria è sempre un punto di ragionamento indispensabile.
Anna Rita Emili La forma architettonica e lo spazio architettonico sono elementi che, a mio avviso, assumono nelle tue opere un carattere induttivo, ossia un punto di partenza che però non arriva a formalismi eccessivi. Però ti chiedo: in un momento in cui l’etica torna a sensibilizzare i nostri animi, in una contemporaneità in cui i fenomeni legati all’ambiente, al sociale, alla comunicazione diventano sempre più contingenti, secondo te vale la pena lavorare ancora sul concetto di spazio astratto o di arbitrarietà della forma?
Enrico Molteni Credo che ancora oggi
esia necessaria e indispensabile proprio per la sua capacità di rappresentare il mondo e le aspirazioni più profonde dell’uomo, più di altri prodotti. Ha la capacità di rappresentare il suo pensiero in quell’epoca determinata. Quindi sì, credo che lavorare sull’architettura pensando all’architettura in questi termini sia ancora l’unica strada: anzi, difendo con convinzione questa posizione. Non credo a chi sostiene invece la propria architettura facendo uso di questioni politiche, ambientali, sociali, o di qualsiasi tipo esse siano, in quanto non sono aspetti capaci di generare senso in termini puramente architettonici. Non credo assolutamente poi che ci siano state delle epoche in cui le cose sono state più semplici; credo che ogni epoca abbia posto davanti a sé delle questioni da affrontare. Per essere ancora più esplicito, io non credo che per Bramante o Mies fosse più facile che non per noi. Credo invece che in qualsiasi epoca sia indispensabile la presenza dell’architetto come autore ovvero, penso che l’autorialità sia l’unica risposta possibile alla complessità e alle trasformazioni che stiamo vivendo, comprese quelle ambientali e sociali che hai menzionato. Per cui questa è la risposta che darei; anzi, vorrei che ci fosse un modo per difenderla davanti a pressioni sempre più forti sul senso che ha oggi l’architettura. L’architetto deve mantenere chiaro il suo ruolo come autore e lo si può fare anche in gruppo, perché sicuramente il progetto è un’attività interdisciplinare. Ci servono tanti consulenti ma questi gruppi di lavoro non vanno molto avanti se non c’è la presenza dell’architetto come autore.Anna Rita Emili Che significato ha per te la tecnologia e quali sono i materiali con cui preferisci lavorare?
Enrico Molteni Io direi che la questione è per me sempre più importante, forse anche dopo l’esperienza didattica a Mendrisio e anche a causa dell’età. Penso che della triade vitruviana la firmitas sia la questione fondamentale del progetto. Mi ricollego a quanto dicevo prima: la scorciatoia sempre più praticata di avvalersi di società di ingegneria che elaborano gli esecutivi relegando l’architetto sempre più al ruolo di un visionario, uno stratega, un concept designer, porta alla rinuncia di un aspetto del progetto che è importantissimo. La firmitas non è lo studio di un dettaglio per garantire che non deve entrare l’acqua ma tutt’altro; è la scoperta che si può fare attraverso la costruzione. Un buon architetto non rinuncia a questa parte del progetto anzi, necessariamente deve avere delle competenze piuttosto alte sia in riferimento agli aspetti strutturali, sia di costruzione che di messa in opera. Le competenze di un architetto, se vuole utilizzare tutti gli aspetti della triade e farne quindi uso in termini creativi, devono guardare alla costruzione perché proprio nella costruzione si scopre molto di più di quanto si possa immaginare. E quindi la firmitas o la questione tecnico-costruttiva è per me un ambito di indagine che fa differenza e che farà sempre la differenza. Attraverso la costruzione l'idea si converte in presenza, in corpo. Ad esempio, riguardo i materiali, io non credo che la scelta sia una questione legata allo stile o al linguaggio; non penso di aver fatto la scelta di utilizzare un unico materiale in tutti i miei progetti anzi, quasi sempre ne utilizzo uno diverso. Questo è molto bello perché mi permette di diventare ogni volta un piccolo specialista di quel tipo di materiale. Vorrei però che ogni opera o progetto avesse un solo materiale e fosse pensata principalmente con un solo materiale. Nei miei progetti questa riduzione ad un solo materiale c’è sempre stata; continuo a vederla come un aspetto fondamentale verso il raggiungimento di un obiettivo fondamentale: credere che ogni progetto debba essere unico perché ha una sua logica, una non due. Questa unitarietà e totalità si può raggiungere non in un riduzionismo minimalista ma controllando la complessità e la contraddizione attraverso l’unitarietà della costruzione. Un grande esempio potrebbe essere Lewerentz, l’utilizzo del mattone per le sue chiese che sono complessissime, oppure le chiese ortodosse in Russia con quelle forme favolose e che sono fatte tutte e solo in legno. Oppure, per citare un esempio contemporaneo più vicino a noi, direi Valerio Olgiati e all’uso esclusivo del cemento armato nelle sue opere. Questa radicalizzazione credo sia molto utile per chi crede che un edificio, o un’opera di architettura, abbia come fondamento il fatto di essere una cosa, un pezzo pur complesso e contraddittorio che sia, ma uno. Anche Venturi nel suo manifesto gentile, nel suo amare la complessità e la contraddizione ammonisce che proprio tali qualità richiedano uno sforzo ancora maggiore verso l’unità.
Ludovico Romagni Appare evidente come nei tuoi progetti ci sia la necessità di alimentare questa relazione tra pensiero e pratica del progetto: da un lato la alimenti attraverso la partecipazione ai concorsi di architettura nei quali svolgi una sorta di allenamento continuo, dall’altro la sviluppi attraverso la volontà di non abbandonare l’esperienza didattica e di ricerca. Hai insegnato ad Alghero, a Milano, poi c’è stata l’esperienza a Mendrisio e adesso sei diventato ricercatore a Genova. Che cosa pensi dell’insegnamento dell’architettura nelle facoltà italiane e cosa cambieresti verso il come si diventa architetti?
Enrico Molteni Io penso che per diventare architetti bisogna fare progetti e penso che ogni progetto sia un mattone con cui si va a costruire la nostra competenza. Quindi sono contento che hai parlato di questa enorme quantità di concorsi, sono sicuramente più di cento. Continuo a farli come esercizio di progetto e anche perché è fondamentale farsi trovare preparati; le occasioni arrivano o svaniscono per qualsiasi motivo. Per quanto riguarda la didattica, l’esperienza di Mendrisio è stata fortemente legata al progetto. Credo che qualsiasi università per avere successo nella didattica debba avere due cose: la prima è l’organizzazione, la seconda chi insegna. La cosa che mi sorprende è che in termini di organizzazione della didattica in Italia si faccia ancora così fatica e questa cosa appaia ancora piuttosto lacunosa. Il centro dell’organizzazione è il calendario che dovrebbe essere la cosa più semplice del mondo e invece in Italia è così difficile da organizzare; questo porta la didattica a perdere qualità. Tutti i corsi dovrebbero essere di 14 settimane e dovrebbero iniziare e finire tutti lo stesso giorno. Tutti i corsi di progettazione dovrebbero finire nello stesso momento in modo che tutti gli esami siano in un unico momento dell’anno in cui ci si confronta; nessuno ha un giorno più dell’altro. Se tu vuoi invitare qualcuno lo sai tre mesi prima e non tre giorni prima. Chi viene invitato, come chi insegna o impara, può vedere cosa si sta facendo in quella scuola. Quindi il calendario, l’organizzazione della didattica è importante. Ma questo, per esempio, non si riesce a farlo! L’altra questione, la più difficile, è chi insegna. A differenza degli altri Paesi, in Italia ci sono due scuole di pensiero in relazione a chi insegna il progetto: c’è chi crede che per insegnare architettura, progettazione, non basta essere un buon architetto ma devi essere anche un ricercatore o un intellettuale e c’è chi pensa, al contrario, che non devi esserlo o puoi anche non esserlo. Per ora purtroppo prevale la prima idea. Se guardiamo la Spagna o la Svizzera, sono tutti d’accordo sul fatto che sia fondamentale essere un architetto che lavora. Ma non intendo fare la solita litania sulle meraviglie degli altri. A Mendrisio per esempio credo che ci sia una lacuna, perché concentrare tutta la didattica di un semestre su uno specifico progetto, con lo stesso professore senza mai poterne uscire e affrontare la questione in termini anche più generali, senza poter sollevare aspetti magari più teorici, o semplicemente che non siano legati a quella specifica risposta progettuale, io credo che rappresenti un punto di debolezza che invece in Italia non c’è. In Italia i professori più validi supportano il progetto con una ricerca teorica e intellettuale importante. Ma concludo dicendo che se voglio diventare un tuffatore (non necessariamente vincere la medaglia d’oro) avrei tendenzialmente più fiducia in un maestro che sia un buon tuffatore piuttosto di un maestro che conosca bene la storia o la disciplina del tuffo. Di fronte ad un maestro che è un buon tuffatore avrei immediatamente un atteggiamento di fiducia e cercherei di imitare il gesto, un aspetto fondamentale nell’approfondimento. E quindi anche nella progettazione dell’architettura è fondamentale l’apporto di esperienza fornito da chi progetta, chi costruisce e si confronta con la realtà.
Ludovico Romagni Come rivista, Il nostro obiettivo è quello di cercare alcuni aspetti capaci di definire l’identità dell’architettura contemporanea italiana. Nel numero 0 di Enter_Vista Cristiano Toraldo di Francia ci ha detto che l’identità dell’architettura italiana consiste nel non averne, nella mescolanza di forme, colori, relazioni, materiali. Tu hai avuto una lunga esperienza all’estero e nelle tue opere si percepisce un’attenzione verso architetturedi forte identità quali quelle spagnole e portoghesi.Credi che si possano individuare alcuni elementi capaci di definire un’identità dell’architettura contemporanea italiana?
Enrico Molteni E’ una questione bella ed interessante e mi fa piacere che l’abbiate posta come uno degli obiettivi di questa rivista a cui faccio i miei auguri. Porsi la domanda sull’identità dell’architettura italiana mi fa pensare ad un convegno organizzato da Paolo Zermani proprio con questo titolo. Nel mio intervento portai un’immagine che sottolinea proprio quanto è stato già detto da te e Toraldo Di Francia: c’erano tante barche, ciascuna con una rotta. Apparentemente alcune alla deriva, o in balia delle onde, altre che navigano in questo mare, ciascuna con una sua rotta. La visione di queste barche non guidate da un’unica corrente o vento prevalente, ma che navigano su rotte indecifrabili che però risultano essere ciascuna di per se esatta. Questa è un po’ l’immagine che ho dell’architettura italiana: tante eccezionali esperienze autonome tenute insieme dal mare della storia. Ecco, penso che l’architettura italiana abbia una sua identità molto forte e l’abbia sempre avuta se si pensa anche che i grandi architetti in Italia ci sono sempre stati. Architetti capaci di porsi da un lato come intellettuali (abbiamo una tradizione scritta/teorica che non ha equivalenti e che è tuttora presente) e dall’altro di porsi in un rapporto preciso con la storia, preciso nel senso di profondità. Il rapporto con la storia è un rapporto che marca tutta la grande architettura italiana. Alberti, Rossi, Terragni e Libera, per esempio, hanno un rapporto con l’architettura della storia, che non si ritrova negli architetti degli altri paesi. Come nel libro di Biraghi recentemente pubblicato, L'architetto come intellettuale, questa necessità intellettuale allarga il campo e mette sul tavolo la questione del rapporto con la teoria. Solo per citare qualcuno della mia generazione, Pier Vittorio Aureli e i Baukuh sono presenti in questa tradizione: una tradizione che può avere anche momenti eretici come Superstudio o essere più fluida. Quindi, se dal punto di vista dell’espressione architettonica non esiste un’identità, questo è sicuramente un primo aspetto che può essere visto come un tratto distintivo dell’identità architettonica italiana. Dal punto di vista dell’espressione architettonica mi piace questa immagine del mar Mediterraneo e queste barche straordinarie che vi navigano con rotte tutte diverse; basti pensare a esempi straordinari come le case di Bini per Antonioni o la villa Malaparte, entrambe a picco su questo mare, che non riesci a tenere dentro a un ‘vento’ se questo deve essere inteso come un tentativo di definizione di un canone estetico o un percorso teorico condiviso.
Ludovico Romagni Sei un post_giovane architetto, hai appena compiuto 50 anni. Un consiglio per i giovani architetti.
Enrico Molteni E’ una bella domanda perché se oggi si vuole avere un ruolo come architetto lo si deve avere come autore. E’ importante parlare e ascoltare tutti: il progetto è un’attività interdisciplinare e non un racconto da scrivere nel chiuso di una stanza. Ma il ruolo dell’architetto come autore è centrale per chi sceglie oggi di impegnarsi in questo bellissimo campo; è necessaria un presa di responsabilità grande. Questo è quello che mi sentirei di consigliare a chi oggi, con forza, vuole assumersi l’impegno di intraprendere questo mestiere: porsi come architetto e non come artista, o concept designer o altro, ma come un architetto autore.
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