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Riciclare una rete, rivestire un giardino. Supersuperficie e architettura interplanetaria

Giovanni Rocco Cellini

Nel panorama dell’architettura italiana, la figura di Cristiano Toraldo di Francia -reduce dal Superstudio- è sicuramente una tra le più carismatiche nel considerare la dimensione del progetto non come un problema di scala, quanto piuttosto una questione di metodo, fondato sull’elaborazione e la rappresentazione di un pensiero critico ed estetico, capace di mettere in crisi qualunque struttura convenzionale.
Egli indaga la disciplina del progetto secondo una logica che potremmo definire transcalare: la sua ricerca architettonica è sempre stata caratterizzata da un dialogo proficuo, ininterrotto e di reciproca sussistenza tra “micro” e “macro”, secondo un’idea di reciprocità dove tutto ciò che è piccolo riconosce le proprie ragioni in tutto ciò che è grande e viceversa.
Dalla Supersuperficie fino alle recenti ricerche sul ri-vestire1, Toraldo ha continuamente sperimentato il progetto come il luogo ideale dove rispondere criticamente ad ogni sorta di standardizzazione e delegittimazione dell’uomo in rapporto ai suoi spazi, da quelli più intimi dell’abitazione fino al paesaggio. L’interesse non è mai ricaduto sulle questioni metrico-dimensionali del progetto, quanto piuttosto sulla vitalità degli spazi, sulla variabilità dei processi dell’uomo e della natura che divengono pretesti per formulare nuovi linguaggi. L’esperienza didattica offerta da Cristiano Toraldo di Francia e relativa all’installazione del “Giardino del riciclo”2, -alla quale chi scrive ha partecipato in qualità di studente- può essere letta anch’essa come una dimostrazione di questa progettualità transcalare e processuale. Facendo riferimento ai principi site-specific dell’art in nature, alcuni cilindri di rete metallica a maglia esagonale, che erano stati abbandonati nel giardino della Scuola3, sono stati adornati con materiali di recupero prevalentemente naturali, per mettere in scena una piccola performance della natura. 
Le reti metalliche, deformate e piegate, configuravano dei cilindri cavi un po' instabili sparsi nel giardino. Questi si ergevano -assoggettati dalla vegetazione pressoché incolta- per essere ri-vestiti4 con dei materiali di recupero che gli conferivano una rappresentazione. Tali materiali, suscettibili di essere respinti, consumati o modificati dalle condizioni ambientali al contorno, contribuivano alla configurazione di spazialità favorevoli all’accoglienza e allo sviluppo di nuovi ecosistemi sui corpi dei cilindri, e di cui l’uomo ne era l’artefice. Superando le questioni prettamente dimensionali, il risvolto paesaggistico di queste installazioni nasceva quindi da un vero e proprio progetto di allestimento. Con questo esercizio didattico, credo sia possibile rintracciare una sorta di continuità con le ricerche svolte dal Superstudio alla fine degli anni Sessanta relativamente agli Istogrammi. Questi erano strumenti compositivi -concettuali e senza relazione di scala- utilizzati per descrivere ed interpretare quell’architettura che non avrebbe comunicato più nulla, se non questioni di pura quantità. La Superarchitettura che ne derivava era caratterizzata da un lato dalla riduzione formale tipica dell’arte minimalista, dall’altro, dalla capacità di proiettarsi verso la dimensione planetaria che era tipica invece della land art: costituiva un dispositivo quadrettato in grado di coniugare “micro” e “macro”, tanto adattivo quanto anonimo5. In occasione di “Italy. The new domestic landscape” -la mostra curata da Emilio Ambasz al MoMA di New York nel 1972- il Superstudio aveva esposto un progetto dove la forma dell’architettura coincideva con la Terra stessa, poiché essa sarebbe stata completamente cablata e avvolta da un’interminabile superficie grigliata6. Lo spirito critico di tale proposta, che prevedeva un mondo senza oggetti, equo, e dove le risorse fossero distribuite ovunque in modo razionale, voleva dimostrare per assurdo gli effetti legati alle pretese pianificatrici del Moderno e all’urbanizzazione selvaggia. La Supersuperficie sarebbe stata uno spazio astratto e disponibile all’uomo nomade contemporaneo che da essa poteva trarne pieno sostentamento e soddisfazione, liberandosi completamente dalla necessità di ogni sorta di merce7. La riduzione dell’architettura al suo grado zero consisteva quindi nell’elaborare un modello razionale, la cui estremizzazione ne avrebbe dimostrato l’intrinseca inesattezza8. Pur essendo evidente la condizione globale contemporanea legata alla profezia di tale griglia, ovvero di una società “individualista ma iperconnessa, flessibile ma rigorosamente controllata, tecnologica e sempre più wireless”9, l’assenza dentro questo modello di ogni aspetto qualitativo e umanistico è pregiudizievole rispetto al desiderio dell’uomo di rappresentarsi, di personalizzare il proprio ambiente, nonché di riconoscere il proprio rifugio. Come spiega Gabriele Mastrigli -a proposito della recente ricerca di Toraldo sul tema del ri-vestire - il reticolo della Supersuperficie oggi ha la necessità di divenire un dispositivo che esprima pienamente la dimensione performativa dell’utente, includendo ovviamente la percezione identitaria e la sua manifestazione al mondo esterno10. Parallelamente agli Istogrammi e alla Supersuperficie - che concettualizzavano la modellazione di un mondo apparentemente perfetto- per comprendere pienamente le ragioni delle ricerche più recenti, l’altra matrice da considerare è quella dell’Architettura interplanetaria, anch’essa indagata dalla fine degli anni Sessanta11. Al contrario delle altre ricerche, l’Architettura interplanetaria doveva necessariamente fare i conti con la progettazione di nuovi dispositivi protettivi per l’uomo che, vivendo lo spazio galattico, si sarebbe dovuto difendere da ogni aggressività e avrebbe dovuto far fronte all’ignoto che caratterizzava questi ambienti12.La Supersuperficie e l’Architettura interplanetaria individuavano due modi particolari di intendere il rapporto dell’uomo con l’architettura. Se da un lato l’uomo avrebbe abitato lo spazio celebrando la sua nudità, dall’altro si sarebbe procurato un mezzo attraverso cui sopravvivere. Se da un lato l’uomo non avrebbe avuto più bisogno dell’oggetto architettonico poiché collegato indistintamente in ogni parte del globo, dall’altro avrebbe avuto la necessità di progettare un ambiente speciale per vivere a proprio agio. L’uomo di oggi -completamente assorbito nella dimensione dell’iperconnettività- ha sviluppato, come non mai, il desiderio di dotare il proprio corpo di specifici dispositivi per estetizzare la propria identità e poter vivere nel benessere fisico e psicologico di un ambiente che, molto spesso, è sfavorevole all’abitare. Al di là delle molteplici forme assunte da questi dispositivi di interfaccia, il senso è quello di affrontare attivamente le possibili crisi, da quelle ambientali fino a quelle identitarie. Le varie dimostrazioni sul tema del ri-vestire, effettuate nei laboratori di design di Cristiano Toraldo di Francia, costituiscono oggi un esemplare riferimento a tal proposito13. Riprendendo invece le fila delle installazioni dei cilindri di rete metallica, relativamente ai cosiddetti “giardini del riciclo”, queste potrebbero essere interpretate metaforicamente come un’attuale archeologia della Supersuperficie. Stante l’affermarsi del digitale e delle reti virtuali, che hanno sostituito efficacemente gli apparati caratteristici dell’era meccanica, le reti metalliche abbandonate nel giardino potrebbero essere considerate come una metafora della griglia originaria che -ormai desueta- è disponibile per essere riciclata. Il modello può essere così ri-significato senza rinunciare alla costruzione di un nuovo ambiente, e senza negare il potenziale creativo originario, ovvero quello di poter sovrascrivere, colorare, ritagliare e modificare la quadrettatura degli Istogrammi alle differenti scale14.

Didascalia Immagine
G.R. Cellini, Il giardino del riciclo. Installazione di un giardino pensieroso negli spazi aperti dell’Annunziata presso la Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno, Collage fotografico, 2011.

Note

1 Si veda la ricerca pubblicata in C. Toraldo di Francia, Ri-vestire. Vestire il pianeta/vestire un corpo: dalla Supersuperficie al Librabito, Quodlibet, Macerata 2018.
2 Il “Giardino del riciclo” costituisce l’ultima categoria sperimentata dei cosiddetti “Giardini pensierosi” che si sono svolti dal 2007 al 2011 presso i Laboratori di Progettazione del Paesaggio del Corso di Laurea Magistrale in Architettura dell’Università di Camerino. C. Toraldo di Francia, titolare di tutti questi laboratori, nonché ideatore dei “Giardini pensierosi”, ha così spiegato il senso di questa ricerca: «Ogni anno abbiamo scelto uno spazio verde incolto intorno alla Scuola e su tale spazio gli studenti hanno progettato un allestimento temporaneo, come misura labile per entrare in relazione con i tempi ciclici degli organismi vegetali che circondano l’architettura. Abbiamo chiamato questi allestimenti Giardini Pensierosi perché abbiamo affidato agli steli artificiali, innestati nei campi, frasi, poesie, pensieri, scelti o scritti da ognuno degli studenti, allo scopo di realizzare un colloquio silenzioso con gli elementi vegetali, il cui pensiero ci è forse parzialmente nascosto…». In C. Toraldo di Francia, Giardini Pensierosi 2007-2011: una storia, in https://www.cristianotoraldodifrancia.it/didattica/?p=1064, video, 7’’-22’’, consultato il 25/04/2018.
3 Erano i cilindri di rete superstiti dell’installazione legata sempre al tema dei “Giardini pensierosi” che Cristiano Toraldo di Francia aveva fatto svolgere agli studenti del Laboratorio di Progettazione del Paesaggio l’anno accademico precedente (a.a. 2009-2010) e che erano stati accatastati nel giardino della Scuola in attesa di essere smaltiti o riutilizzati.
4 Analogia con la ricerca “Ri-vestire”. Cfr. C. Toraldo di Francia, Ri-vestire. Vestire il pianeta/vestire un corpo…, cit.
5 Cfr. Superstudio, La vita segreta del Monumento Continuo. Conversazioni con Gabriele Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 114-115.
6 In un’intervista Cristiano Toraldo di Francia spiega il progetto della Supersuperficie presentato al MoMa nel 1972 in occasione della mostra curata da E. Ambasz ed intitolata “Italy. The New domestic landscape”. A tal proposito dice: «L’architettura è la terra: il pianeta cablato è l’architettura». Cfr. Ivi, p. 125.
7 Cfr. G. Mastrigli, Superstudio. Life without objects, in "Arch’it", 28 dicembre 2003, http://architettura.it/books/2003/200307003/index.htm, consultato il 10/06/2018. Vedi anche C. Toraldo di Francia, L’utopia è morta viva l’utopia!, in https://www.cristianotoraldodifrancia.it/utopia/, consultato il 10/06/2018.
8 Cfr. M. Leoni, La società post-borghese nella griglia dell’utopia, recensione al libro Superstudio, Opere 1966-1978, G. Mastrigli (a cura), Quodlibet, Macerata 2016, in "Alias – il manifesto", 09 aprile 2017, https://www.quodlibet.it/recensione/2626, consultato il 10/06/2018.
9 G. Mastrigli, Superstudio. Life without objects, cit.
10 Cfr. G. Mastrigli, Modernità sulla pelle, in C. Toraldo di Francia, Ri-vestire. Vestire il pianeta/vestire un corpo…, cit., p. 10-13.
11 In quegli anni Cristiano Toraldo di Francia era molto incuriosito dalla rivista scientifica “Scientific American” che riceveva direttamente nel suo studio per conto del padre Giuliano che era un noto fisico italiano. E’ stato grazie alla lettura di quelle pagine che Cristiano Toraldo di Francia si è avvicinato, insieme al collega Adolfo Natalini, allo studio dell’architettura interplanetaria. Cfr. Superstudio, La vita segreta del Monumento Continuo. Conversazioni con Gabriele Mastrigli, Quodlibet, Macerata 2015, p. 121.
12 Ivi.
13 Si vedano le molteplici declinazioni assunte dalle sperimentazioni sul tema del ri-vestire in C. Toraldo di Francia, Ri-vestire. Vestire il pianeta/vestire un corpo…, cit.
14 Cfr. Superstudio, La vita segreta del Monumento Continuo…, cit., p. 115.

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