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Sperimentazione e continuità in un progetto di transizione

Ludovico Romagni

Abstract

Il progetto del Campus di Chieti si colloca in un momento storico di passaggio tra la supremazia della cultura del Moderno e le nuove istanze della contemporaneità. Dispersione, suolo, infrastrutture, nuove centralità territoriali, misure e dismisure erano i temi che in quegli anni iniziavano un lento processo di metabolizzazione. Se da un lato il progetto è fortemente sperimentale nel rapporto con la città e il territorio vallivo, dall’altro conferma un linguaggio volutamente minimalista, esito di analisi e ricerche sulla città storica compatta.

The project of the Campus of Chieti is placed in a historical moment of transition between the supremacy of the culture of the Modern and the new instances of the contemporary. Dispersion, soil, infrastructure, new territorial centrality, measures and landscaping were the themes that in those years began a slow process of metabolization. If on the one hand the project is highly experimental in the relationship with the city and the valley territory, on the other confirms a deliberately minimalist language, the result of analysis and research on the compact historical city

Keywords

città campagna, suolo, prospettive, linguaggio

Nella progressiva perdita di rilevanza e di utilità sociale, l’architettura degli ultimi decenni è rimbalzata tra linee di ricerca generate in maniera oppositiva alla precedente. Nel volgere di qualche decennio siamo passati dalla stagione dello ‘stile internazionale’ a quella della ‘architettura disegnata’, dall’architettura della ‘tendenza’ a quella della ‘decostruzione’, dal progetto urbano ancorato ai modelli insediativi della modernità ai nuovi paesaggi della contemporaneità, dalle gerarchie della ‘città compatta’ all’atopia, la dispersione, le dismisure, l’unicità del gesto della ‘città generica’. Il progetto del campus di Chieti si colloca in un momento di passaggio cruciale tra due delle fasi più significative di questa oscillazione e cioè nel momento di transizione tra la supremazia della cultura del Moderno e le nuove istanze che si sollevavano dall’osservazione dei nuovi scenari del paesaggio contemporaneo. Un momento molto stimolante e intenso che ha visto la facoltà di architettura di Pescara al centro di un confronto aspro e persino conflittuale. Al recupero dei centri storici, all’integrazione dei nuovi interventi con i tessuti consolidati della città, si sostituiva lo studio degli spazi della dispersione, dei nuovi segni del paesaggio contemporaneo e di un nuovo linguaggio architettonico. Iniziava a percepirsi un nuovo orizzonte di indagine che non muoveva più dal continuo richiamo alla ‘tradizione’ ma esplorava modalità autonome e non vincolate ad un alcun tipo di ‘codice’. I ‘territori ibridi’, le ‘ferite’ paesaggistiche, gli spazi legati ai telai infrastrutturali, la coesistenza della dismisura dei ‘grumi territoriali’ (secondo la definizione di Aimaro Isola) con il ‘trash’ dei lembi di tessuto poderale e dei residui storicizzati, mettevano in valore ogni porzione vuota, ogni battuta silenziosa nei territori delle ‘metropoli piccole’1. Si prendeva atto che la città si stava evolvendo in maniera imprevedibile e i modelli urbani della modernità lasciavano definitivamente il posto a forme metropolitane misteriose e aleatorie che, apparentemente, avevano poco a che fare con un approccio conoscitivo tipo-morfologico dove ricercare valori di identità e appartenenza territoriale. L’apertura dimensionale dei nuovi ‘luoghi di criticità’ riconsegnava al progetto architettonico, alla sua capacità di definire dispositivi di ‘forma’ capaci di controllare ambiti territoriali oramai di esclusiva competenza urbanistica, un ruolo di centralità nella prefigurazione del progetto di paesaggio. Si mettevano a punto e venivano sperimentati nuovi criteri narrativi e strumenti progettuali per definire scenari dilatati in cui lo sfondo diventava figura, dove la sezione architettonica coincideva con la sezione territoriale, dove la simultaneità scalare faceva coesistere la dismisura complessiva del progetto con la misura delle singole parti. In questo contesto teorico si colloca il progetto del Campus dell'Università "Gabriele D'Annunzio" a Chieti (oggi quasi del tutto realizzato), un’opera che per coerenza, continuità e immediatezza ha pochi raffronti nel panorama delle università italiane. Ha recuperato l'idea originaria di campus trasformandola in una struttura di rilevanza urbana e territoriale, in stretto rapporto con il contesto. Il risultato è uno spazio denso di tensioni nel quale si sovrappongono le tracce residue del tessuto poderale, l'urbanizzazione dispersa e i nuovi edifici universitari, sullo sfondo di un paesaggio ancora riconoscibile. Nel tempo storico della sua definizione (gli anni ’90 appunto) il progetto coglie due aspetti apparentemente contraddittori: uno fortemente sperimentale nel controllo della ‘porosità’ dello spazio vuoto, dello spazio di campagna, e uno più resiliente riferito al linguaggio delle architetture.
L’aspetto innovativo è riconducibile all’esplorazione dei modi possibili di costruzione di una ‘città aperta’ in rapporto alla natura dove una forma urbana discontinua si costruisce nella continuità dell’elemento naturale; l’idea consiste nel far precipitare un ‘fluido di natura’, un nuovo suolo, una orografia digradante ricostruita, attraverso una serie di edifici disposti secondo una modalità aperta in maniera autonoma, senza elementi di mediazione. Parti finite si immergono autonomamente in questo fluido senza piegarsi e adattarsi, quasi confliggendo; ‘isole urbane nella natura’, secondo la definizione di Monestiroli, dove ricercare un ritorno alla natura come città-artefatto “un amalgama di elementi, naturali, artificiali e immateriali, o di flussi, poroso e fibroso al contempo, con zone ispessite e solide cariche di memoria, e vaste zone indistinte e prive di qualità, quasi liquide, fatte di elementi antitetici che hanno sciolto il legame con i tradizionali limiti stabiliti tra naturale e artificiale”2. Il progetto sperimenta e concretizza un percorso ragionativo assolutamente coerente tra la lettura dei fenomeni urbani e la possibilità di introdurre elementi che dessero alla composizione una base scientifica fondata sulla convinzione che le analisi tipo morfologiche possano ancora tradurre l’architettura di allora in architettura dell’oggi. Il riferimento metodologico va ricercato nelle riflessioni sul territorio abruzzese che Agostino Renna, in modo particolare nel suo libro L’illusione e i cristalli. Immagini di architettura per una terra di provincia 3 del 1980, svolgeva in quegli anni osservando una realtà in cui i borghi, le case sparse, gli spazi pubblici si unificavano in un’unica ‘città campagna’: i segni visibili e invisibili dell’esistente, del tessuto poderale, del costruito di tradizione, diventavano strutture di riferimento capaci di dettare giaciture, misure, densità, percorrenze in un territorio rurale ancora protagonista rispetto al costruito disperso nei ‘paesaggi ibridi’. Fedeli ai loro riferimenti formativi, i progettisti hanno resistito alla tentazione di un ‘ludico e disperato’ disegno di frammenti e lacerti indotti dalla forma urbana delle ‘piccole metropoli’; con coerenza hanno imposto una geometria netta come regola interna nella costruzione delle singole parti e un’aleatorietà controllata nella definizione delle relazioni reciproche attraverso giaciture differenti che privilegiano visuali e scorci riferiti ai tratti più significativi del paesaggio. Su tutto si percepisce una presenza difficilmente eludibile e cioè la Casa dello studente che Giorgio Grassi progetta per lo stesso Campus nel 1976. Il tema del percorso come percezione spaziale, qualità principale di quel progetto, diventa il motivo caratterizzante le relazioni tra gli edifici che costituiscono le parti autonome dell’intero complesso "la quinta stradale stilisticamente unitaria ed il portico a tutta altezza sono una interpretazione adeguata e architettonicamente riconoscibile del ruolo attribuito a questa nuova importante struttura edilizia della città (enfatizzando) la strada stessa come luogo pubblico per eccellenza”4. Così come Grassi riutilizzano, reinterpretandoli, gli elementi unificatori del “canovaccio” classico dell’architettura, il percorso, l’asse, il traguardo e il punto nodale, rivitalizzando il concetto di affaccio stradale, in una composizione che non vuole definire gerarchie spaziali. Lavorando per sottrazione eliminano il concetto di traguardo, restituendo forza alla prospettiva laterale, rinvigorendo i percorsi creando una interclusione spaziale che consente al percorso di divenire un interno e contemporaneamente un esterno, un intimo luogo di scambio, di socialità, ridefinendo il valore d’uso della strada come spazio di relazione. Una scelta che tuttavia non appare radicale e che viene messa in discussione dal posizionamento dell’Aula magna dove decidono di rinunciare al controllo esclusivo delle prospettive laterali (come nel celebre riferimento) per costruire un punto focale, una centralità forte e evocativa che chiude uno degli assi principali di percorrenza e traguardo. Definiscono una centralità, una piazza, una spazialità che evoca le gerarchie della città compatta. Una scelta che probabilmente priva il progetto di opportunità possibili come ad esempio il ricorso ancora più deciso e carico di tensione al ‘progetto di suolo’, così caro da lì a poco alla scuola pescarese; se è vero che tutti gli edifici si conficcano nel terreno disegnando una linea di terra mai piatta, sempre inclinata, fatta eccezione per il poco percepibile sollevarsi a coprire il volume dove sono collocati i locali tecnici, la percezione alla mescolanza e all’ambiguità che il ‘progetto di suolo’ evoca non è così forte come nella descrizione dello stesso Pepe Barbieri “architetture ipogee, tetti o facciate serra, edifici cristallizzati come minerali, fessure e pieghe abitate del suolo. Una sorta di ispessirsi e dilatarsi della linea di terra che non divide più il costruito dal suolo, ma diviene essa stessa luogo della città”5. Nel caso dell’Aula magna, pur essendo chiaro il riferimento a certi episodi della città ellenistica, come osserva Carlos Martì Arìs 6, in cui l’edificio ricerca regole percettive e di connessione riferite ad una volontà di orchestrazione dell’intero complesso, agendo sulla piega e l’ispessimento della linea di terra, probabilmente, si sarebbe potuto confermare sia l’idea di percorso interno alla singola parte che di centro nel riferimento complessivo; penso ad esempio ai migliori progetti di architettura legati al tema del suolo che negli anni immediatamente successivi sono stati realizzati in Europa come ad esempio la biblioteca dei Mecanoo a Delft (1997). Se sul piano delle strategia urbana il progetto restituisce quindi, in maniera fortemente innovativa un frammento di città riconoscibile, capace di configurarsi come elemento d'ordine rispetto alla casualità delle nuove espansioni urbane della città di Chieti e di tutto il territorio vallivo, sul piano del linguaggio invece, decide di rimanere silenzioso rinunciando al tentativo di confrontarsi in modo sperimentale con i nuovi temi sollevati dalla ‘città continua’ e la conseguente enfasi di esplorazione formale che iniziava a caratterizzare il panorama architettonico nazionale ed anche universitario. Attuano una sorta di “eclisse del linguaggio”7 quasi a voler riaffermare l’aspetto secondario del tema rispetto nella concezione del progetto. In maniera ostinata prevale la preferenza per quel principio di ‘essiccazione formale’ che caratterizzava molte delle architetture di quella stagione in cui però gli elementi stilistici erano concepiti in relazione ad una città che era ancora compatta e che non aveva iniziato a confrontarsi con i nuovi contesti. Una rinuncia dichiarata che rinvia alla qualità dell’articolazione dello spazio interno e alla definizione di elementi estesi e non puntuali di confronto con gli spazi della dispersione l’esplorazione formale. Passaggi aerei di attraversamento trasversale dei percorsi e alcuni dei prospetti degli edifici perimetrali completamente trasparenti e definiti in una sapiente articolazione ritmica tra gli elementi portanti e le superfici vetrate, accrescono l’articolazione dei volumi. La scelta del mattone e del travertino conferma la volontà di ricercare architetture destinate a durare nel tempo.

Note

1 G. Barbieri, Architettura per metropoli piccole, Transeuropa, Ancona 1999.
2 I. Abalos, J. Herreros, Bodegones Fin de Siglo. Obras y proyectos, in “El Croquis”, n. 90, 1998, p.6.
3 A. Renna, L’illusione e i cristalli. Immagini di architettura per una terra di provincia, Clear, Roma 1980.
4 G. Grassi, A. Monestiroli, Casa dello studente a Chieti, Kappa, Roma 1980, p.33.
5 G. Barbieri, Architettura…, cit., p.22.
6 C.M. Arìs, La costruzione di un luogo pubblico tra città e campagna, in G. Barbieri, A. Del Bo, C. Manzo, R. Mennella, Il Campus
universitario di Chieti, Electa, Milano 1997, p.8.
7 Ivi, p.8.

Bibliografia

- Barbieri G., Architettura per metropoli piccole, Transeuropa, Ancona 1999.
- Barbieri G., Del Bo A., Manzo C., Mennella R., Il Campus universitario di Chieti, Electa, Milano 1997
- “El Croquis”, Toward an artificial landscape, n. 90, 1998
- Grassi G., Monestiroli A., Casa dello studente a Chieti, Kappa, Roma 1980
- Renna A., L’illusione e i cristalli. Immagini di architettura per una terra di provincia, Clear, Roma 1980

Didascalia dell’immagine

Vista verso valle del Campus di Chieti (foto Raniero Carloni, 2019)

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