Pepe Barbieri: il cantore della teoria del domandarsi
Matteo Ieva
Abstract
Questo breve focus sull’opera di Pepe Barbieri prova a ripercorrere criticamente alcuni temi sull’architettura trattati all’interno della sua vasta produzione teorico-professionale, soffermandosi in particolare sulla recente monografia Geocittà? In che modo, oggi, si abita, nello stesso tempo, un “luogo” e il “mondo”? L’apertura sulle questioni complesse della città e della società odierne, quale presupposto alla condizione di crisi strutturale che investe il nostro tempo, consente allo studioso di costruire un apparato metodologico, interpretativo della fenomenica urbana, basato sulla meccanica critica del domandarsi. Grazie all’incedere maieutico, proposto con cosciente rigore e finalizzato a comprendere gli aspetti generali impliciti nel binomio dialettico civitas-urbs, si scoprono scenari del tutto inediti che egli tratta da “architetto operante” ponendosi l’obiettivo di verificare se esiste (e come perseguirla) una possibile via d’uscita per il superamento della profonda impasse critica in cui è precipitata la civiltà.
This focus on the work of Pepe Barbieri tries to critically retrace some issues on architecture treated within his vast theoretical-professional production, focusing in particular on the recent monograph Geocittà? How, today, do we live, at the same time, a "place" and the "world"? Openness to the complex issues of today’s city and society, as a prerequisite to the condition of structural crisis that affects our time, allows the scholar to build a methodological apparatus, interpreting the urban phenomenal, based on the critical mechanics of the question. Thanks to the maieutic progression, proposed with conscious rigour and aimed at understanding the general aspects implicit in the dialectical binomial civitas-urbs, we discover completely new scenarios that he treats as an "operating architect" with the aim of verifying whether it exists (and how to pursue it) a possible way out for overcoming the deep critical impasse in which civilization has fallen.
Keywords
Urbs, Civitas, Geocittà, Spazio metropolitano
“Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà del pensiero”
Perché citare Martin Heidegger dovendo esprimere alcune considerazioni su Pepe Barbieri? Perché Barbieri non è solo un architetto operante, ma è una rara figura di intellettuale che costruisce consapevolmente il proprio pensiero sul composito sfondo delle questioni complesse che ricercano l’essere - con un orizzonte critico teso a decifrare gli aspetti indeterminati o dubbi del nostro mondo, quello dell’architettura -, proponendo la straordinaria formula del farsi domande. Creativa procedura teoretica denotativa della “pietà del pensiero”, ma anche sua critica immanente. Senza ripiegare troppo improduttivamente sull’origine del domandarsi aristotelico (il thauma), Barbieri adotta tale struttura di indagine del reale nella forma di un’autentica práxis (azione) metodologica, evidente soprattutto nel suo ragionare sui grandi temi del nostro tempo. Lo dimostra la sua recente opera critica Geocittà? In che modo, oggi, si abita, nello stesso tempo, un “luogo” e il “mondo”?, in cui si scopre l’interesse ad acquisire, mediante un inusitato percorso di ricerca, una modalità interpretativa che concorre a costruire un pensiero, dinamico e produttivo, utile a spiegare gli odierni fenomeni dell’urbs. Il tema dell’abitareil mondo, nel multiforme inverarsi del rapporto tra l’esser-ci e l’ente, diventa il punto di vista essenziale in cui “risuona” apertamente la sua riflessione critica, con una prospettiva intenzionalmente interessata a studiare a fondo la complessa fenomenica corrente. Aspettativa di approfondimento che non si esaurisce nell’osservare i “fatti” in una presunta condizione di incessante imperturbabilità, considerato che Barbieri persegue da architetto un’idea pro-positiva, rivelatrice di un ego-cogito critico proiettato in una dimensione che avanza oltre il presente. Un infuturarsi che guarda ai problemi della contemporaneità senza rinunciare a riconoscere il valore del portato storico come annuncio di una visione autenticamente imperniata sul principio “logico-essenziale” del sistema processuale. Concetto che ricorre spesso nel profondo delle sue analisi sul reale, a dimostrazione di una ricercata tensione critica tesa a coniugare le espressioni dell’architettura a quei movimenti di pensiero fenomenologico-generativo che spaziano trasversalmente tra più discipline. Non sfugge, infatti, alla nostra attenzione il suo ragionare hegelianamente sulla realtà concepita come l’esito visibile – materiale e immateriale – di una meccanica processuale, la cui legge del suo mutare nel tempo è ineluttabilmente presente nel suo stesso divenire. L’indagine su questi temi disvela – nell’accorta osservazione proposta - le ragioni dell’odierno declino di una società costretta a naufragare nella condizione mnesica, celebrando la propria esistenza come cultura dalle “memorie infrante”. È in questo quadro di osservazioni e di giudizio che l’autore di Geocittà?... legge gli organismi urbani odierni, le metropoli, nella loro situazione problematica di spazio abitato qualificato da una irrazionale perdita dei valori e dalla simultanea incapacità dell’uomo di produrre una risposta concreta al disagio di non sentirsi parte di una civitas, riconoscendo l’urbs come sistema “comunitario”. Visione, in fondo, analoga alle notazioni critiche di Simmel, esposte concomitantemente al definirsi delle attese apparse all’inizio del XX secolo, in cui la metropoli è narrata come luogo di conflitti e di alterazione dei rapporti umani e l’essere (uomo), che non si identifica più con lo spazio in cui vive, è costretto all’angoscia di chi insegue - ma non trova - un’adeguata condizione di esistenza individuale. Barbieri osserva in proposito che l’abitante metropolitano, a cui si deve poter offrire un immaginario possibile per entrare nello spazio e nel tempo, è un “io” molteplice che vive tante realtà temporali diverse. Oggi – dice - si riconosce una crisi dello spazio-tempo proprio come paradigma condiviso. Una crisi, si può affermare, che comporta in genere un disinteresse verso ciò che muove oltre il presente, di modo che esso non possa più essere immaginato quale futuro necessitato. La contemporaneità obbliga a considerarci in un frangente transitorio che induce a mettere insieme, simultaneamente, più tempi diversi e differiti connotati da un contraddittorio, quanto precario, spirito critico denotativo della incapacità a stabilire una relazione dialettica tra il prima e il dopo. Il tempo a cui Barbieri riferisce le sue considerazioni, si noti, non va inteso nel significato puro della fisica newtoniana, essendo quello dell’oggi interessato soprattutto al “vissuto” esistenziale e non a quello misurato. Da ciò la consapevolezza che esso non procede linearmente con un progresso continuo e unidirezionale, essendo evidenti - negli atti comportamentali dell’uomo d’oggi - anche momenti in cui non sembrano prodursi avanzamenti ma sfavorevoli regressioni. La sua idea di spazio metropolitano, peraltro, s’impernia apertamente sul paradigma concettuale offerto dai termini utopia ed eterotopia proposti da Foucault, capaci di disvelare il senso della città nella sua riduzione a “spazio della dislocazione” in cui l’esistenza umana è nient’altro che il risultato di una successione di rapporti che definiscono, nella loro aspettazione reciproca, insiemi di disposizioni irriducibili e non integrabili. A rafforzare il concetto, si consideri poi il richiamo non incidentale a Guattari a proposito delle criticità dell’ente urbano divenuto puro aggregato molecolare dall’elevato potenziale inerziale ed entropico: un corpo senza “organi-città”. Convinto che il processo di trasformazione della realtà sia possibile, come lo è il recupero del rapporto tra civitas e urbs, discute sul legame evidente che si instaura tra il carattere fattuale della cosa in sé e l’idea che ne governa il suo inveramento, ricercato nella corrispondenza dialettica tra l’oggetto e il soggetto, e dichiara che: La qualità nasce se noi spostiamo l’obiettivo dei nostri saperi dalla produzione degli oggetti, alla comprensione che invece produciamo qualcosa che entra nel processo nel quale dobbiamo favorire i procedimenti delle scelte, delle decisioni. Nel sottile ragionamento che presenta in forma generale è presente il rispecchiamento di una struttura teorica di ricerca ermeneutica che considera “gadamerianamente” l’atto del comprendere come “esperienza di verità” e si fonda non (astrattamente) solo sul rapporto tra soggetto e oggetto perché nell’interpretazione della realtà vi è sempre una meccanica di mediazione del passato con il presente. Da ciò consegue il suo interesse a ricercare i temi complessi dell’attualità, guardando con sospetto alle grandi costruzioni teoriche proposte da una letteratura di parte che insegue esecrabili modelli narrativi, manifestamente astraenti e mistificatori, ed elaborando categorie esegetiche adeguate all’intelligibilità e alle instabilità dello spazio urbano. Ma soprattutto, si coglie la profondità di un pensiero che, in dettaglio e con acutezza descrittiva, presenta le cose con una tale perfezione che le fa apparire come presenti. Un realismo efficiente, associato all’attitudine del progettista, che consente di intercettare un immaginario possibile e suggerire l’articolarsi di opportunità differenti e di soluzioni alternative, persino conflittuali, che offrono all’operatore la convenienza a poter scegliere. Tra le numerose varietà ermeneutiche donate alla comunità scientifica, identificative degli attuali fenomeni urbani, quella di porosità ricorre con una certa frequenza. È con quest’ordine categoriale che analizza la struttura dell’edificato e delle relazioni sociali che vi si determinano, con un fine tutt’altro che purovisibilistico dato che nelle sue analisi interpretative vi è tutta quella ricchezza di significati coerenti al pensato di W. Benjamin, che coniò questo termine dopo aver visitato Napoli negli anni ’20 del secolo scorso per spiegare, con una straordinaria capacità di sintesi filosofico—antropologica e sociale, il carattere dell’architettura e i comportamenti della comunità insediata. Assunto teorico che Barbieri “consacra”, assieme ad altri fondamentali principi, in un’ideale sistema strutturale-progettuale (mai ostinatamente autoriale) quale inveramento di una ipotesi di trasformazione possibile e congruente della realtà. In altri termini, di un’Archè ancora viva posta a fondamento dei codici disciplinari dell’architettura, cui è subordinata la Téchne, senza astenersi – egli declama – da un necessario, quanto inalienabile, senso di eticità. Archi-tracce di postulati sperimentali che il pensatore romano verifica in luoghi caratteristici come, ad esempio, la città adriatica - parafrasata da una serie di parole chiave (stratificazione, spessore, sequenza) esemplificative della più generale area culturale mediterranea -, o in realtà complesse come Medellin, di cui espone il carattere esclusivo di metropoli che accetta, risolvendola, la sfida del suolo condizionato dalla morfologia, ed elegge il paradigma (pubblico) infrastrutturale come espediente pratico per un’efficace azione di riqualificazione urbana. Scorrendo i suoi scritti, si coglie il profilo di un studioso che concepisce il rapporto con la realtà in guisa di percorso di ricerca alimentato costantemente dal dubbio - fondamento imperativo del sistema metodologico adottato -, utile a perfezionare la struttura del suo domandarsi. E non si tratta di una condizione inerte perché Barbieri guarda con interesse a una forma di dubbio propriamente euristico, capace di nutrire le sue valutazioni, ma anche di portare nuove scoperte. La sua idea di città, mai incardinata nella nozione astratta di una supposta fissità perché immaginata variabile in relazione agli eterogenei contesti incontrati, si fonda su un asserto oggettivabile che prova a fare sintesi dei molteplici volti di cui essa è espressione: è la “geocittà”, costruita sul presupposto teoretico di un ente – sintesi composita di un numero indeterminato di componenti - connesso strettamente alla terra, al suolo, e interpretabile anche come “città globo”. Un globo – dice - intessuto di mille filamenti, di ritmi diversi di cui non abbiamo ancora decifrato il senso del depositarsi negli insediamenti. Non una città mondo ma un mondo che diviene città … Giudizio che l’autore costruisce con rigore non rinunciando a proporre una visione che elude inutili determinazioni relative e si concentra sui grandi temi che guardano la natura ultima e assoluta del reale. Con ciò confermando l’espressione di Derrida, citata da R. Masiero, chel’architettura è l’ultima fortezza della metafisica! A parziale chiusura di questa istantanea su Barbieri, è indispensabile sottolineare che le sue osservazioni sulla città, qui richiamate riduttivamente, lo accostano senza dubbio a quel fitto stuolo di studiosi italiani (tra cui spiccano le figure di S. Muratori, L. Quaroni, E.N. Rogers, V. Gregotti, A. Rossi, C. Aymonino, G. Caniggia, F. Purini, A. Renna, G. Strappa, ecc.) che, a partire dalla metà del secolo scorso, ininterrottamente, si sono spesi nel costruire strutture di metodo, tra loro complementari, utili a comprendere i fenomeni della città moderna, anche in vista della sua trasformazione. Ritornando all’espressione proposta in apertura: il domandarsi quale annuncio di ricerca/scoperta di una successione di risposte che muovono asintoticamente verso la verità, si può affermare che è in questo solco di pensiero critico ancora attuale che Barbieri costruisce la sua tesi analitico-progettuale, con una prospettiva di necessario aggiornamento adeguata ai temi della contemporaneità ma anche di “avvicinamento al pericolo”, inseguendo “miesianamente” un orizzonte di speranza che contribuisce a ritenere come possibile – ne è convinto Heidegger- una “via verso ciò che salva” il mondo (l’urbs) dalla crisi strutturale in cui è oggi fatalmente sprofondata la civitas.
Didascalia dell'immagine
G. Barbieri, A. Del Bo, C. Manzo, R. Mennella, Polo didattico nel Campus universitario di Chieti (1993)
Matteo Ieva
Abstract
Questo breve focus sull’opera di Pepe Barbieri prova a ripercorrere criticamente alcuni temi sull’architettura trattati all’interno della sua vasta produzione teorico-professionale, soffermandosi in particolare sulla recente monografia Geocittà? In che modo, oggi, si abita, nello stesso tempo, un “luogo” e il “mondo”? L’apertura sulle questioni complesse della città e della società odierne, quale presupposto alla condizione di crisi strutturale che investe il nostro tempo, consente allo studioso di costruire un apparato metodologico, interpretativo della fenomenica urbana, basato sulla meccanica critica del domandarsi. Grazie all’incedere maieutico, proposto con cosciente rigore e finalizzato a comprendere gli aspetti generali impliciti nel binomio dialettico civitas-urbs, si scoprono scenari del tutto inediti che egli tratta da “architetto operante” ponendosi l’obiettivo di verificare se esiste (e come perseguirla) una possibile via d’uscita per il superamento della profonda impasse critica in cui è precipitata la civiltà.
This focus on the work of Pepe Barbieri tries to critically retrace some issues on architecture treated within his vast theoretical-professional production, focusing in particular on the recent monograph Geocittà? How, today, do we live, at the same time, a "place" and the "world"? Openness to the complex issues of today’s city and society, as a prerequisite to the condition of structural crisis that affects our time, allows the scholar to build a methodological apparatus, interpreting the urban phenomenal, based on the critical mechanics of the question. Thanks to the maieutic progression, proposed with conscious rigour and aimed at understanding the general aspects implicit in the dialectical binomial civitas-urbs, we discover completely new scenarios that he treats as an "operating architect" with the aim of verifying whether it exists (and how to pursue it) a possible way out for overcoming the deep critical impasse in which civilization has fallen.
Keywords
Urbs, Civitas, Geocittà, Spazio metropolitano
“Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà del pensiero”
Perché citare Martin Heidegger dovendo esprimere alcune considerazioni su Pepe Barbieri? Perché Barbieri non è solo un architetto operante, ma è una rara figura di intellettuale che costruisce consapevolmente il proprio pensiero sul composito sfondo delle questioni complesse che ricercano l’essere - con un orizzonte critico teso a decifrare gli aspetti indeterminati o dubbi del nostro mondo, quello dell’architettura -, proponendo la straordinaria formula del farsi domande. Creativa procedura teoretica denotativa della “pietà del pensiero”, ma anche sua critica immanente. Senza ripiegare troppo improduttivamente sull’origine del domandarsi aristotelico (il thauma), Barbieri adotta tale struttura di indagine del reale nella forma di un’autentica práxis (azione) metodologica, evidente soprattutto nel suo ragionare sui grandi temi del nostro tempo. Lo dimostra la sua recente opera critica Geocittà? In che modo, oggi, si abita, nello stesso tempo, un “luogo” e il “mondo”?, in cui si scopre l’interesse ad acquisire, mediante un inusitato percorso di ricerca, una modalità interpretativa che concorre a costruire un pensiero, dinamico e produttivo, utile a spiegare gli odierni fenomeni dell’urbs. Il tema dell’abitare il mondo, nel multiforme inverarsi del rapporto tra l’esser-ci e l’ente, diventa il punto di vista essenziale in cui “risuona” apertamente la sua riflessione critica, con una prospettiva intenzionalmente interessata a studiare a fondo la complessa fenomenica corrente. Aspettativa di approfondimento che non si esaurisce nell’osservare i “fatti” in una presunta condizione di incessante imperturbabilità, considerato che Barbieri persegue da architetto un’idea pro-positiva, rivelatrice di un ego-cogito critico proiettato in una dimensione che avanza oltre il presente. Un infuturarsi che guarda ai problemi della contemporaneità senza rinunciare a riconoscere il valore del portato storico come annuncio di una visione autenticamente imperniata sul principio “logico-essenziale” del sistema processuale. Concetto che ricorre spesso nel profondo delle sue analisi sul reale, a dimostrazione di una ricercata tensione critica tesa a coniugare le espressioni dell’architettura a quei movimenti di pensiero fenomenologico-generativo che spaziano trasversalmente tra più discipline. Non sfugge, infatti, alla nostra attenzione il suo ragionare hegelianamente sulla realtà concepita come l’esito visibile – materiale e immateriale – di una meccanica processuale, la cui legge del suo mutare nel tempo è ineluttabilmente presente nel suo stesso divenire. L’indagine su questi temi disvela – nell’accorta osservazione proposta - le ragioni dell’odierno declino di una società costretta a naufragare nella condizione mnesica, celebrando la propria esistenza come cultura dalle “memorie infrante”. È in questo quadro di osservazioni e di giudizio che l’autore di Geocittà?... legge gli organismi urbani odierni, le metropoli, nella loro situazione problematica di spazio abitato qualificato da una irrazionale perdita dei valori e dalla simultanea incapacità dell’uomo di produrre una risposta concreta al disagio di non sentirsi parte di una civitas, riconoscendo l’urbs come sistema “comunitario”. Visione, in fondo, analoga alle notazioni critiche di Simmel, esposte concomitantemente al definirsi delle attese apparse all’inizio del XX secolo, in cui la metropoli è narrata come luogo di conflitti e di alterazione dei rapporti umani e l’essere (uomo), che non si identifica più con lo spazio in cui vive, è costretto all’angoscia di chi insegue - ma non trova - un’adeguata condizione di esistenza individuale. Barbieri osserva in proposito che l’abitante metropolitano, a cui si deve poter offrire un immaginario possibile per entrare nello spazio e nel tempo, è un “io” molteplice che vive tante realtà temporali diverse. Oggi – dice - si riconosce una crisi dello spazio-tempo proprio come paradigma condiviso. Una crisi, si può affermare, che comporta in genere un disinteresse verso ciò che muove oltre il presente, di modo che esso non possa più essere immaginato quale futuro necessitato. La contemporaneità obbliga a considerarci in un frangente transitorio che induce a mettere insieme, simultaneamente, più tempi diversi e differiti connotati da un contraddittorio, quanto precario, spirito critico denotativo della incapacità a stabilire una relazione dialettica tra il prima e il dopo. Il tempo a cui Barbieri riferisce le sue considerazioni, si noti, non va inteso nel significato puro della fisica newtoniana, essendo quello dell’oggi interessato soprattutto al “vissuto” esistenziale e non a quello misurato. Da ciò la consapevolezza che esso non procede linearmente con un progresso continuo e unidirezionale, essendo evidenti - negli atti comportamentali dell’uomo d’oggi - anche momenti in cui non sembrano prodursi avanzamenti ma sfavorevoli regressioni. La sua idea di spazio metropolitano, peraltro, s’impernia apertamente sul paradigma concettuale offerto dai termini utopia ed eterotopia proposti da Foucault, capaci di disvelare il senso della città nella sua riduzione a “spazio della dislocazione” in cui l’esistenza umana è nient’altro che il risultato di una successione di rapporti che definiscono, nella loro aspettazione reciproca, insiemi di disposizioni irriducibili e non integrabili. A rafforzare il concetto, si consideri poi il richiamo non incidentale a Guattari a proposito delle criticità dell’ente urbano divenuto puro aggregato molecolare dall’elevato potenziale inerziale ed entropico: un corpo senza “organi-città”. Convinto che il processo di trasformazione della realtà sia possibile, come lo è il recupero del rapporto tra civitas e urbs, discute sul legame evidente che si instaura tra il carattere fattuale della cosa in sé e l’idea che ne governa il suo inveramento, ricercato nella corrispondenza dialettica tra l’oggetto e il soggetto, e dichiara che: La qualità nasce se noi spostiamo l’obiettivo dei nostri saperi dalla produzione degli oggetti, alla comprensione che invece produciamo qualcosa che entra nel processo nel quale dobbiamo favorire i procedimenti delle scelte, delle decisioni. Nel sottile ragionamento che presenta in forma generale è presente il rispecchiamento di una struttura teorica di ricerca ermeneutica che considera “gadamerianamente” l’atto del comprendere come “esperienza di verità” e si fonda non (astrattamente) solo sul rapporto tra soggetto e oggetto perché nell’interpretazione della realtà vi è sempre una meccanica di mediazione del passato con il presente. Da ciò consegue il suo interesse a ricercare i temi complessi dell’attualità, guardando con sospetto alle grandi costruzioni teoriche proposte da una letteratura di parte che insegue esecrabili modelli narrativi, manifestamente astraenti e mistificatori, ed elaborando categorie esegetiche adeguate all’intelligibilità e alle instabilità dello spazio urbano. Ma soprattutto, si coglie la profondità di un pensiero che, in dettaglio e con acutezza descrittiva, presenta le cose con una tale perfezione che le fa apparire come presenti. Un realismo efficiente, associato all’attitudine del progettista, che consente di intercettare un immaginario possibile e suggerire l’articolarsi di opportunità differenti e di soluzioni alternative, persino conflittuali, che offrono all’operatore la convenienza a poter scegliere. Tra le numerose varietà ermeneutiche donate alla comunità scientifica, identificative degli attuali fenomeni urbani, quella di porosità ricorre con una certa frequenza. È con quest’ordine categoriale che analizza la struttura dell’edificato e delle relazioni sociali che vi si determinano, con un fine tutt’altro che purovisibilistico dato che nelle sue analisi interpretative vi è tutta quella ricchezza di significati coerenti al pensato di W. Benjamin, che coniò questo termine dopo aver visitato Napoli negli anni ’20 del secolo scorso per spiegare, con una straordinaria capacità di sintesi filosofico—antropologica e sociale, il carattere dell’architettura e i comportamenti della comunità insediata. Assunto teorico che Barbieri “consacra”, assieme ad altri fondamentali principi, in un’ideale sistema strutturale-progettuale (mai ostinatamente autoriale) quale inveramento di una ipotesi di trasformazione possibile e congruente della realtà. In altri termini, di un’Archè ancora viva posta a fondamento dei codici disciplinari dell’architettura, cui è subordinata la Téchne, senza astenersi – egli declama – da un necessario, quanto inalienabile, senso di eticità. Archi-tracce di postulati sperimentali che il pensatore romano verifica in luoghi caratteristici come, ad esempio, la città adriatica - parafrasata da una serie di parole chiave (stratificazione, spessore, sequenza) esemplificative della più generale area culturale mediterranea -, o in realtà complesse come Medellin, di cui espone il carattere esclusivo di metropoli che accetta, risolvendola, la sfida del suolo condizionato dalla morfologia, ed elegge il paradigma (pubblico) infrastrutturale come espediente pratico per un’efficace azione di riqualificazione urbana. Scorrendo i suoi scritti, si coglie il profilo di un studioso che concepisce il rapporto con la realtà in guisa di percorso di ricerca alimentato costantemente dal dubbio - fondamento imperativo del sistema metodologico adottato -, utile a perfezionare la struttura del suo domandarsi. E non si tratta di una condizione inerte perché Barbieri guarda con interesse a una forma di dubbio propriamente euristico, capace di nutrire le sue valutazioni, ma anche di portare nuove scoperte. La sua idea di città, mai incardinata nella nozione astratta di una supposta fissità perché immaginata variabile in relazione agli eterogenei contesti incontrati, si fonda su un asserto oggettivabile che prova a fare sintesi dei molteplici volti di cui essa è espressione: è la “geocittà”, costruita sul presupposto teoretico di un ente – sintesi composita di un numero indeterminato di componenti - connesso strettamente alla terra, al suolo, e interpretabile anche come “città globo”. Un globo – dice - intessuto di mille filamenti, di ritmi diversi di cui non abbiamo ancora decifrato il senso del depositarsi negli insediamenti. Non una città mondo ma un mondo che diviene città … Giudizio che l’autore costruisce con rigore non rinunciando a proporre una visione che elude inutili determinazioni relative e si concentra sui grandi temi che guardano la natura ultima e assoluta del reale. Con ciò confermando l’espressione di Derrida, citata da R. Masiero, che l’architettura è l’ultima fortezza della metafisica! A parziale chiusura di questa istantanea su Barbieri, è indispensabile sottolineare che le sue osservazioni sulla città, qui richiamate riduttivamente, lo accostano senza dubbio a quel fitto stuolo di studiosi italiani (tra cui spiccano le figure di S. Muratori, L. Quaroni, E.N. Rogers, V. Gregotti, A. Rossi, C. Aymonino, G. Caniggia, F. Purini, A. Renna, G. Strappa, ecc.) che, a partire dalla metà del secolo scorso, ininterrottamente, si sono spesi nel costruire strutture di metodo, tra loro complementari, utili a comprendere i fenomeni della città moderna, anche in vista della sua trasformazione. Ritornando all’espressione proposta in apertura: il domandarsi quale annuncio di ricerca/scoperta di una successione di risposte che muovono asintoticamente verso la verità, si può affermare che è in questo solco di pensiero critico ancora attuale che Barbieri costruisce la sua tesi analitico-progettuale, con una prospettiva di necessario aggiornamento adeguata ai temi della contemporaneità ma anche di “avvicinamento al pericolo”, inseguendo “miesianamente” un orizzonte di speranza che contribuisce a ritenere come possibile – ne è convinto Heidegger- una “via verso ciò che salva” il mondo (l’urbs) dalla crisi strutturale in cui è oggi fatalmente sprofondata la civitas.
Didascalia dell'immagine
G. Barbieri, A. Del Bo, C. Manzo, R. Mennella, Polo didattico nel Campus universitario di Chieti (1993)
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