10 domande a Pepe Barbieri

Anna Rita Emili
Ludovico Romagni

 

La seguente intervista si è svolta presso il Campus dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti

Anna Rita Emili Ci troviamo all’interno del campus universitario di Chieti, un complesso molto interessante dal punto di vista architettonico progettato da Pepe Barbieri, Adalberto del Bo, Carlo Manzo e Raffaele Mennella. Siamo con Pepe Barbieri che oltre ad essere un architetto è stato docente di Progettazione architettonica nella Facoltà di Architettura di Pescara, nonché Direttore del Dipartimento di Architettura della stessa Università. Caro Pepe, prima di entrare nello specifico del progetto in cui ci troviamo, potresti descriverci gli anni della tua formazione, sottolineando quali sono state le tue figure di riferimento e i maestri a cui ti sei ispirato?

Pepe Barbieri Va detto subito che erano anni cruciali, perché io mi sono iscritto ad Architettura nel ’62 e la cosa più importante -in quegli anni- era l’idea del cambiamento, il fervore di poter maneggiare e incidere sul proprio futuro; quello che forse oggi, e non solo nella scuola, percepiamo invece come un deficit. In quel momento, quando io sono entrato, le prime occupazioni annunciavano quello che sarebbe stato un momento di svolta nella vita della facoltà romana, perché nella grande assemblea del Roxy del ’63 vengono chiamati a Roma -contrastando quindi la linea accademica più autoritaria presente nella facoltà- Quaroni da Firenze, Piccinato e Zevi da Venezia: docenti democratici, così riconosciuti. Questo determina, per noi che venivamo dai licei -e quindi da una condizione più protetta e appartata di lavoro e di formazione individuale- l’idea di un lavoro di tipo collettivo. Un lavoro che richiedeva prese di posizione sia relativamente alla costruzione del proprio itinerario di formazione, sia prese di posizione più collettive, sul senso generale della formazione, che nel caso specifico di Architettura significava mettere in discussione lo scopo e l’efficacia stessa dell’insegnamento. Questo è stato decisivo; quel tipo di formazione si colloca non a caso, in un momento -gli anni Sessanta- che corrisponde ad un periodo di grande intensità per la produzione teorico-critica italiana. Escono in quegli anni alcuni libri tra cui “Storia dell’Architettura moderna” di Zevi, “Progetto e destino” di Argan, “L’architettura della città” di Aldo Rossi; ma c’è anche Aymonino con “Origini e sviluppo della città moderna”, Galvano della Volpe con “Critica del gusto”, nonché negli Stati Uniti c’è Robert Venturi con “Complessità e contraddizioni nell’architettura”. E’ un momento in cui questo tessuto non omogeneo di posizioni -tra cui quella molto importante a Roma di Saverio Muratori, che fa uscire in quegli anni alcuni suoi testi- è rilevante. In particolare, io ero stato abbastanza affascinato dalla figura di Muratori e dal suo ragionamento, assolutamente coerente, tra la lettura dei fenomeni urbani, e la possibilità di riuscire ad introdurre in essa degli elementi che dessero al progetto una base scientifica. Tuttavia, questa posizione di traduzione immediata, quasi di corrispondenza evidente tra le analisi tipo-morfologiche e la possibilità che queste si potessero tradurre in architettura dell’oggi (di allora), da un lato mi affascinava, ma dall’altro mi lasciava perplesso, tantoché in realtà andai a seguire i corsi di Quaroni con cui alla fine mi sono laureato.

Anna Rita Emili Diciamo anche che la facoltà di Architettura della “Sapienza”, in quegli anni, era un centro importante di ricerca, dove si confrontavano molte delle figure di spicco del panorama architettonico.

Pepe Barbieri Si, importante, soprattutto nell’esplorazione del rapporto tra il progettare e l’insegnare; un tema su cui, in questi ultimi anni, mi sono impegnato nel concorrere alla fondazione della nostra Associazione Scientifica ProArch. In quel momento storico (pochi anni prima, ad esempio, anche Libera operava nella facoltà romana) molti docenti, che in realtà erano anche dei grandi professionisti, cercavano di costruire un rapporto virtuoso tra il progettare e l’insegnare, che facesse immediatamente cogliere le possibilità e le qualità di un progetto operante. Pensate che in quegli stessi anni non soltanto si producevano dei libri, ma c’erano state anche le Olimpiadi degli anni Sessanta, dove i romani avevano sperimentato come una città si potesse trasformare attraverso la realizzazione di alcune grandi opere infrastrutturali ed edilizie residenziali, fra tutte il Villaggio Olimpico e Decima di Moretti, Libera, Cafiero; il Tuscolano, e molti altri interventi. Attenzione, sono progetti molto importanti che hanno esplorato temi riconoscibili anche nel progetto di questo Campus: il rapporto tra costruzione e spazio aperto, il disegno del suolo in relazione alla modellazione delle architetture; pensate agli andamenti curvilinei di Decima, oppure a certi sollevamenti del suolo e agli accoglimenti dell’elemento naturale nel Villaggio Olimpico oppure, ancora, alla rotazione di alcune figure.

Anna Rita Emili L’importanza del rapporto tra l’applicazione della teoria all’interno della pratica del progetto ha caratterizzato da sempre le vostre architetture. Puoi introdurci questo progetto del campus? Come si inserisce all’interno della tua ricerca e quali sono state le origini, le motivazioni che hanno portato alla costituzione di questo gruppo di architetti?

Pepe Barbieri Certo, la questione è molto interessante perché il progetto del campus nasce intorno al 1985. Questo progetto si dipana in un arco temporale di circa 20 anni e gli ultimi interventi (l’ultimo di questi non lo abbiamo ancora realizzato e credo mai si realizzerà) sono del 2007. Questo progetto viene svolto da un gruppo di quattro persone che, oltre me, è composto da Adalberto Del Bo, Carlo Manzo e Raffaele Mennella. Noi eravamo allora quattro docenti della facoltà di Architettura di Pescara. In quegli anni l’Ateneo D’Annunzio era collocato su tre polarità che erano Chieti, Pescara e Teramo. Ognuna di queste sedi aveva una specificità di settori di insegnamento: a Chieti c’erano le materie di carattere letterario, a Pescara c’erano le facoltà di Architettura, Economia e Lingue e a Teramo c’erano le facoltà giuridiche. Il quegli anni, il Rettore Bernardini immagina di dover procedere ad una sistemazione dell’edilizia universitaria delle tre sedi e propone, sostanzialmente ai docenti della facoltà di Architettura, di organizzarsi in gruppi di progettazione e di proporsi per le tre sedi. Noi quattro, che allora eravamo presenti nella facoltà, ma che lavoravamo in coppie distinte -Carlo Manzo e Adalberto Del Bo che appartenevano alla “tendenza” e Raffaele Mennella ed io che facevamo parte di in un raggruppamento multidisciplinare molto segnato da orientamenti politici- pur non avendo mai progettato insieme ci conoscevamo molto bene. In quegli anni, le tesi di laurea nella nostra facoltà erano dei grandi happening, nel senso che tutta la facoltà era tappezzata dai progetti dalle tesi di laurea e le commissioni giravano tra tutti i luoghi in cui erano esposti i materiali, instaurando un dibattito a volte aspro ma ricco di spunti che durava l’intera giornata. Quindi conoscevamo bene i lavori reciproci, accomunati dall’interesse all’architettura della città e del territorio. Di conseguenza decidiamo di preparare questo progetto preliminare, relativo al primo e ancora unico nucleo della facoltà. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare guardando oggi il campus formato da molte parti, il primo progetto non aveva l’ambizione e gli elementi, che facevano pensare ad un intervento complessivo distribuito su tutti i diciassette ettari dell’area. Allora le attività universitarie a Chieti si svolgevano nel centro storico e, tutto sommato, questa discesa a valle era stata in parte osteggiata da alcuni. Questa zona di Madonna delle Piane si trova in un punto delicato della forma del territorio, perché è collocata lungo una trasversale, la via dei Vestini, che finisce per unire tra loro parti fortemente discontinue. Era ancora una porzione intatta di campagna tra il centro storico e la conurbazione di carattere industriale lungo il fiume Pescara. Si trattava di una parte del territorio indagato anche da Agostino Renna con delle interpretazioni a cui siamo molto debitori. Il suo pensiero e il suo libro “L’illusione e i cristalli”, ad esempio, colgono rispetto a questo tema, il fatto che la linearità della valle del Pescara propone già un’idea di campagna urbanizzata, cioè di un territorio formatosi attraverso un sistema esteso di relazioni in cui la zona industriale è posta in posizione di centralità rispetto alla valle (non come nella città storica radiale dove le attività industriali sono all’esterno, quindi nella periferia) su cui si innesta il sistema trasversale che oggi contiene il campus.

Ludovico Romagni Riallacciandomi alla questione delle relazioni urbane che il campus innesta con il territorio, si rileggono i temi e le ricerche che hanno caratterizzato la facoltà di Pescara in quegli anni: i due PRIN, In.Fra e OP Adriatico, in particolare, hanno esplorato il possibile dialogo tra il sistema infrastrutturale lineare di valle, le relative trasversalità e la definizione dei nodi come catalizzatori di funzioni; progetti di vaste dimensioni in cui le architetture ricercavano nuove relazioni con il tessuto poderale, con i segni della contemporaneità, con la dispersione. Dal punto di vista delle relazioni urbane, in sintesi, mi sembra un progetto molto sperimentale per quel periodo; dal punto di vista linguistico invece, rimane ancorato ad un linguaggio riconducibile ad un momento preciso della vicenda architettonica italiana in cui però il contesto era differente, era quello della città consolidata. C’è una contraddizione tra le nuove relazioni urbane e linguaggio utilizzato?

Pepe Barbieri A dir la verità non lo penso. Intanto vorrei fare una brevissima premessa. Martì Arìs, che ha scritto una prefazione alla prima pubblicazione complessiva su questo campus fatta per Electa, dà una definizione molto acuta sul senso di costruzione di questa centralità che condividiamo in pieno. Il tema era la costruzione di un luogo pubblico tra città e campagna. Ma cos’è un luogo pubblico? Un luogo pubblico con questo carattere ha senso se si inserisce in un contesto territoriale che comprende l’intero complesso dell’Abruzzo marittimo inteso come una grande città estesa, come una grande città che può e deve costruire suoli pubblici. In questi suoli come si costruisce? E qui forse l’insegnamento quaroniano da cui provenivo, e che i miei colleghi hanno appreso per altre traiettorie, era quello della necessità di mettere in gioco un colloquio tra artificio e natura, una relazione tra elementi varianti e invarianti, tra emergenze e tessuto, un dialogo tra parti in cui gli oggetti architettonici non dovessero essere necessariamente protagonisti. Quaroni sosteneva che il problema del progetto non fosse produrre un oggetto, quanto piuttosto la costruzione di un luogo. Gli oggetti di questo luogo quindi, non dovendo essere protagonisti, era giusto costruirli con una certa sobrietà. Arìs stesso, nel libro di questo progetto, parlava di eclissi del linguaggio non per incapacità, ma per voluta scelta di una sorta di passo indietro, di silenziosità della figuratività degli oggetti per dar valore al loro modo di disporsi e di posizionarsi rispetto al suolo, avendo letto nella forma naturale dei luoghi una forza notevolissima. Rispetto all’idea del campus jeffersoniano della Virginia che disegna sì un “campo”, ma lo disegna in una sorta di perimetrazione molto rigida, qui invece il campus viene sottoposto ad una serie di deformazioni, slittamenti, con i quali la capacità di ogni oggetto di essere se stesso dal punto di vista di una morfologia elementare si complica nella percorrenza interna, negli scavi, nelle cavità. Questa è una condizione molto importante che, secondo me, credo si possa riconoscere. Poi certamente ci sono anche alcune assonanze con le ricerche della tendenza di quegli anni, le quali però avevano a che fare soprattutto con l’idea della continuità della costruzione della città compatta. Anche se, come in Monestiroli, esisteva una linea di ricerca che, nell’affrontare il tema della “città aperta”, estesa al territorio, traduceva l’idea dell’isolato urbano nella concezione dell’“isola urbana nella natura”. Cioè, nell’idea che vi siano oggetti che si dispongono nella fluidità dello spazio naturale attraverso la compostezza e l’asciuttezza delle loro forme. Così come accede, ad esempio, nel Parco La Fayette (1955_1960) di Hilberseimer e Mies van Der Rohe (abbondantemente studiato da Adalberto Del Bo) dove gli oggetti dialogano nella natura, o come fa Le Corbusier nel Piano di Nemours (1934). Esiste tutta una linea di lavoro molto lunga in cui il tema del rapporto natura-costruzione si gioca su strategie che mirano al carattere essenziale e, in un certo senso, prosciugato del disegno degli oggetti. A ribadire l’adesione a questa linea noi scegliemmo di costruire il campus con l’uso di soli tre materiali: mattoni, metallo e travertino. All’inizio, la prima impresa di costruzioni offrì all’Ateneo la possibilità di realizzare il campus in pannelli prefabbricati di cemento, cosa che noi rifiutammo, e questo ha garantito quella durata e quella qualità che ancora oggi voi state osservando.

Anna Rita Emili L’intenzione di mettere in relazione gli elementi all’interno di uno spazio introduce il tema del vuoto che diventa una condizione essenziale tra i volumi. E’ un tema che ritroviamo in molti dei vostri progetti. Anche in questo, la Galleria Centrale è caratterizzata da uno spazio molto suggestivo in cui coesistono elementi differenti che si articolano su vari livelli. Non è uno spazio interstiziale ma è uno spazio che assume un significato molto importante. Volevo avere da te una conferma rispetto a questo aspetto.

Pepe Barbieri Certamente, la trama dei vuoti è stata decisiva. Il vuoto non è un vuoto, è uno spazio declinato con particolari caratteri e rappresenta una modellazione tra interno ed esterno che costruisce una rete di relazioni. Credo che ognuno di noi quattro abbia trovato, nell’itinerario delle proprie ricerche ed esperienze, altri momenti e riferimenti in cui questo tema è stato affrontato. E’ stata decisiva anche una parte della mia formazione poiché, appena laureato, oltre ad aver lavorato nello Studio Valle, dove ho partecipato alla redazione di alcuni progetti tra i quali i centri di controllo Enel, le “stecche” di Tor Bella Monaca, il Palazzo delle Poste in Via Togliatti, ho collaborato, approfondendo questo tema, con Sergio Musmeci. In particolare, in alcuni progetti di concorso di grande forza espressiva, abbiamo indagato il rapporto tra vuoto e costruzione, il doppio vuoto (parliamo dei progetti della Tanzania, dell’Aeroporto di Genova) determinato dalle strutture tubolari leggere sorrette dall’andamento obliquo dei cavalletti che definiva un gioco reciproco tra il vuoto interno della struttura tubolare e lo spazio che si generava nell’intradosso dello scorrimento reciproco di questi sistemi programmaticamente aperti. E’ stata una grande esperienza che ho utilizzato in un altro grande progetto a cui sono molto affezionato e mi dispiace non sia stato realizzato: vi sto parlando del progetto di concorso per la nuova sede dell’Alitalia a Roma, quella che poi ha costruito, con nostro parziale contributo, lo Studio Passarelli. Anche lì c’era il problema del rapporto con un luogo importante, rappresentato dal fronte collinare che si affacciava sull’autostrada verso Fiumicino a Roma, e sul quale tre grandi piastre venivano sottoposte allo scavo di nove grandi serre cilindriche che servivano al guadagno energetico climatico. Parliamo degli anni Ottanta e forse eravamo troppo in anticipo. Avevo posto questo tema di grande rilevanza per far sì che il disegno della figura risolvesse il problema energetico-climatico attraverso il processo di scambio e di creazione dei vuoti.

Ludovico Romagni Volevo riagganciarmi alla questione della sobrietà. Nel panorama architettonico contemporaneo non possiamo parlare di composizione per le opere rappresentative della seconda generazione di architetti postmoderni. La loro intenzione è quella di affrontare la "dissonanza" degli oggetti (la grandezza) e, in generale, la dissoluzione della forma urbana. Lo star-system non ha il tempo di inserirsi in un disciplinare in grado di mettere le diverse esperienze progettuali in una relazione reciproca. Può essere ancora utile un approccio tipo-morfologico al progetto? Oppure è più probabile la conferma e l’ulteriore definizione di quella poetica del frammento che ha caratterizzato dal ‘900 le strategie compositive della cultura europea nei diversi campi disciplinari: da Joice a Sant’Elia, a Schönberg, alla Città Analoga.

Pepe Barbieri Intanto c’è da dire che va tolta da questa considerazione l’idea troppo ristretta del significato di un approccio tipo-morfologico. Questa idea spesso conduce ad un codice prescrittivo, modellistico. Insomma, sono molto più legato, al di là del rapporto di amicizia, a quello che ha scritto su questo argomento Martì Arìs nel libro “Le variazioni dell’identità”, in cui il tipo viene descritto in maniera opposta ad una codificazione prescrittiva, quanto piuttosto come un genoma, un principio di relazione tra elementi che ha a che fare più con l’idea di tema di architettura, così come ha scritto più volte anche Monestiroli. Con il suo programmatico carattere di generalità nell’indicare una modalità in cui l’architettura può esprimere una interpretazione dei contesti. Dire ad uno studente: “in questo progetto il tema è quello di una copertura” significa dire che vince tematicamente il rapporto tra copertura e sostegno; oppure dire: “vince l’idea della parete o di una parete abitata”, significa riconoscere un principio di tipo-morfologico che si può declinare in infiniti modi. Non credo peraltro che la disseminazione della città nel territorio non debba essere letta anche come ancora un’opportunità di una costruzione dotata di capacità figurale perché, se la riporto proprio sui temi dell’arte come fai tu, io devo cogliere questo: Kandiskij, che era molto attento alla musica, tant’è che era amico di Schönberg, realizza nel 1910 il primo famosissimo acquerello astratto come un gioco di relazioni multiple in cui assistiamo al superamento del centro. Quello che nella dodecafonia si otteneva non andando più sulla tonica, quindi distruggendo la centralità della tonica. Ma non è che non andando più sulla tonica non esiste un cosmo relazionale dei suoni che viene messo in moto; questo nuovo cosmo relazionale, così come nell’acquerello sopracitato, è formato di colori, figure e spessori diversi che però, guarda caso, sono messi in relazione. La stessa cosa possiamo dirla accostando ad esempio l’acquerello di Kandiskij a quella famosa veduta del Campo Marzio frantumato di Piranesi (che Tafuri definì “rottura della sintassi”) in cui quel Campo Marzio sembra essere stato messo in movimento da Kandiskij per formare una contemporanea figuratività aperta. Per questo credo che le due cose debbano andare insieme. E’ il nostro compito.

Anna Rita Emili Cosa pensi dell’architettura oggi? Secondo te esistono delle figure a cui è possibile fare riferimento? Mi riferisco, in particolare, agli architetti italiani.

Pepe Barbieri Anche qui voglio premettere un concetto. Io sono interessato ad un nodo problematico per l’architettura italiana e non solo: il fatto che noi abbiamo ereditato una condizione in cui l’architettura che si fa e che viene riconosciuta come tale, quella che va sulle riviste, è un’architettura lontana dal sentire della gente. E’ una rottura che corrisponde a quel distacco che Simmel aveva già messo a fuoco da tempo nello iato tra oggetti, cose e uomini. Io credo che questo sia il problema centrale a cui noi dovremmo pensare se siamo interessati a rimettere in gioco l’architettura come motore utile, necessario, forse indispensabile per una migliore qualità della nostra società e del nostro abitare. Per cui mi piace molto del passato, ma vediamo se la cosa vale ancora oggi, quella definizione che ha usato De Carlo quando ha parlato di “progetti tentativi” come modo di procedere dell’architettura. Nel dire questo De Carlo usa appositamente un doppio senso: “tentativi” perché si va avanti non con l’autorialità assoluta dedotta da un principio generale (che arriva poi alla risoluzione della forma in un passaggio senza tentennamenti) ma soprattutto, e questo mi piace, perché questi progetti devono, appunto, mettere in tentazione il contesto. Quindi azioni in cui le architetture, mostrando alternative, facciano intravedere un’altra possibilità di essere della forma urbana e dell’abitare che richiede all’utente una interattività, una presa di posizione, un fare una scelta; l’idea quindi che abbiamo coltivato, anche in certi nostri incontri e convegni nazionali in cui ci siamo chiesti ad esempio se “l’architettura è ancora un prodotto socialmente utile?”, ci ha portato alla convinzione che la nostra disciplina potrebbe realmente esserlo se accettassimo il fatto che esista la possibilità di una costruzione dialogante. Attenzione, non la vecchia idea buonista della partecipazione; Sennett di recente ha scritto “cooperation not consultation”; ossia non la consultazione che sostanzialmente è una finzione, ma la cooperazione, cioè quelle forme in cui nel complesso processo di trasformazione del territorio e della città sia davvero data voce alla possibilità di interagire con dei progetti programmaticamente aperti, con dei gradi di indeterminatezza, con un rapporto tra temi e svolgimento. Si sta facendo qualcosa in Italia? Per il momento non mi pare molto. Da questo punto di vista mi sembrano interessanti le ricerche di alcuni architetti, ad esempio Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, che identifica l’idea di lavorare nel luogo, come ha scritto Sara Marini in un suo recente libro, lavorando “per il luogo”, attraverso un arretramento del linguaggio, in una sorta di sottrazione verso qualcosa che sembra quasi farsi da sé, come un accostamento di materiali differenti. Se dovessi fare un riferimento a questo problema del rapporto con il contesto devo far riferimento ad un caso straniero che normalmente viene letto in modo negativo da questo punto di vista. Penso a Koolhaas e al suo famoso “Fuck the contest” che invece, secondo me, se letto con attenzione, significa esattamente l’opposto osservando alcune delle sue opere. Penso ad esempio alla Casa della Musica di Porto. Analizzando quel progetto si potrebbe dire che ha obbedito al suo slogan perché ha posizionato questa specie di meteorite dentro una piazzetta circolare con piccoli edifici modesti. Questo è quello che appare se analizziamo il problema del rapporto con il contesto nel senso di volersi adeguare ad esso.

Se invece lo leggiamo con l’idea di voler costruire un nuovo contesto (il contesto come “non già tessuto, ma da tessere”), il lavoro che lui fa non è quello legato alla strategia dei vuoti che ha “brevettato”, per cui dentro a quel monolite ti aspetteresti la sala della musica come un grande spazio vuoto centrale, bensì il progetto contraddice questa centralità facendo in modo che la sala attraversi l’intero volume, da parte a parte, con vetrate che si affacciano sui due lati: una grande sezione quasi territoriale che si affaccia su un’altra smisurata dimensione della città. La piazzetta di quartiere, con la sua modestia, diventa parte di un altro mondo di relazioni metropolitane. Il tema metropolitano delle relazioni spaziali è il tema su cui si deve ragionare.

Ludovico Romagni Non so se ne vuoi parlare, comunque: come ricordi sul piano personale, ma anche della grande opportunità di riflessione culturale, la dura fase conflittuale vissuta dalla facoltà di Pescara nel passaggio dai temi della modernità ai nuovi segni della contemporaneità, alla rappresentazione dei nuovi paesaggi, alla diffusione della città, all’unicità delle architetture?

Pepe Barbieri Certo, non è facile sintetizzare in pochi passaggi quel momento complesso. Mi è capitato di doverci riflettere qualche tempo fa per un piccolo scritto che ho fatto. Mi rendo conto che a distanza di tempo -e questa distanza è sempre utile per rileggere certe cose- di quel percorso a tratti molto oppositivo e conflittuale, restano in piedi delle linee, delle questioni, che in realtà apparentano tra di loro ragionamenti riconducibili intorno ad alcuni punti essenziali. Uno è quello della reinterpretazione dell’architettura della città nella dimensione metropolitana. Ritornando alla figura di Agostino Renna, bisogna dire che rispetto a chi operava in quel tempo, lui è stato una delle personalità più importanti per quanto riguarda il tema della dimensione metropolitana della conurbazione adriatica, e lo pensava in rapporto alla messa in valore del sistema delle campagne che, guarda caso, è la cosa che oggi rileggiamo nell’atteggiamento di Branzi in Agronica, oppure di certi urbanisti come Magnaghi nell’idea di “global/glocal”, o ancora in quella realtà fragile ma piena di potenzialità dei centri minori presentata nell’ “Arcipelago Italia” da Cucinella all’ultima Biennale di Venezia. Noi a Pescara l’abbiamo studiata molto a partire da quegli anni, anche attraverso le diverse occasioni (come del resto avete fatto anche voi ad Ascoli) di ricerca e di incarichi interuniversitari, dove abbiamo affrontato i temi degli spazi infrastrutturali o della ricostruzione post-terremoto. Facendo un passo indietro e tornando alla domanda precedente sulle figure significative dell’architettura italiana contemporanea, farei riferimento all’ignorato contributo che i Dipartimenti di Progettazione universitaria hanno offerto alle amministrazioni, ai territori e alle istituzioni; una quantità enorme di pensiero architettonico utile a capire come poter vivere meglio in queste realtà metropolitane, e che non ha avuto -in genere- alcun riscontro. E’ un lavoro che mostrando opportunità trascurate si muove esattamente nelle direzioni che noi auspicavamo. Lo abbiamo ricordato tante volte: pensiamo ai progetti per la ricostruzione, ai lavori che, per esempio, io stesso ho fatto con Rosario Pavia sul rapporto tra il sistema infrastrutturale e la città di Pescara. Ma anche qui dove siamo, a Chieti, questo progetto che abbiamo fatto è andato avanti per fasi successive, via via riprogettate tenendo conto ogni volta, nel tempo, delle nuove domande che si generavano a partire però da un principio che si perseguiva continuamente. Il ruolo propulsivo del campus ha portato recentemente il Dipartimento di Architettura di Pescara, con Clementi e Pozzi, ad una riflessione sull’intero andamento della via dei Vestini, affinché il campus facesse parte della trama coordinata di una serie di interventi pubblici in relazione tra loro, dal centro storico fino al trascurato rapporto con il fiume, che però non è avvenuta.

Ludovico Romagni Abbiamo condiviso tante ricerche insieme: due PRIN, il tema della dismisura di misure (piccole opere per un grande progetto) con cui ci siamo confrontati nel Dottorato di Ricerca, lo studio per l’ANAS. Secondo te, in questi ultimi vent’anni, è cresciuta la consapevolezza delle amministrazioni e del territorio sui temi della contemporaneità: gli spazi delle infrastrutture, le misure between, la dispersione, le dismissioni?

Pepe Barbieri Come accennavo prima, purtroppo sembra proprio di no. Mi è capitato di partecipare recentemente ad un concorso lanciato da ANAS che sembrava particolarmente illuminato: ricercare la tipologia per un cavalcavia che dovesse essere ripetuta su tutto il territorio nazionale. Ho partecipato con Alberto Ulisse a questo progetto ma quello che mi colpisce è che l’ANAS lancia un concorso a cui non dà nessuna pubblicità. In realtà lo lancia nella percezione che la progettazione del cavalcavia dovesse far parte programmaticamente di un ricercato rapporto con il paesaggio. Per cui, a parole, questa attenzione sembrerebbe esserci, però non mi sembra che vediamo molti episodi in cui questa sensibilità si sia manifestata e debbo dire che questo è un grande peccato. Debbo anche dire che il tema della costruzione del territorio metropolitano dotato di qualità, stranamente, sembra arrivato alla percezione del mondo delle imprese. Questo perché alla presentazione della nuova stagione dell’INARCH, con il passaggio di consegne alla nuova presidenza, era presente anche il presidente dell’ANCE che si è soffermato su come in Italia non ci siano mega città (la più grande ha 4 milioni di abitanti, che rispetto alla dimensione mondiale rappresenta una piccolissima realtà) ma sono presenti una moltitudine di piccoli e medi centri. Questo rappresenta, forse, uno spazio diverso per delle imprese così abituate all’idea di dover per forza densificare la città compatta. Mettere invece in azione contesti più vasti (non certo disseminandoli) con l’idea di un non consumo di suolo, disponendo le polarità costruite in rete anche attraverso infrastrutture materiali e immateriali secondo un’idea metropolitana, mi sembra una prospettiva interessante.

Ludovico Romagni In quello che può apparire una sorta di programma politico, oltreché la sintesi delle tue ricerche più recenti (Geocittà) descrivi, attraverso delle parole chiave, la tua idea di città del futuro: un luogo più pubblico, più poroso, con un carattere di internità, dove valorizzare le differenze. Puoi in breve descrivere questi concetti?

Pepe Barbieri Forse il modo più semplice per raccontarla è quello che ancora oggi stiamo sperimentando, anche con Anna Rita Emili, nelle proposte di studio che offriamo nei seminari di laurea della sede di Valle Giulia a Roma su alcuni temi che sviluppano tutte queste questioni. Parliamo, per esempio, del Parco Archeologico di Gabii sulla Via Prenestina, un luogo quasi impossibile da raggiungere dalla strada e anche dall’ultima fermata Pantano della linea C della metro, quindi con problemi infrastrutturali e di accessibilità. Pensare di realizzare un sistema di nuove relazioni che utilizzi infrastrutture ambientali (rapporto ambiente-natura-clima-energia) e che permetta di creare un luogo pubblico diverso, attraverso un nuovo modo di concepire un’infrastruttura come la stessa Prenestina, è un’idea che spiega alcuni di quei termini. Pensiamo anche al concetto di internità: oggi questo parco viene visto quasi come l’ultimo punto da raggiungere partendo dal centro della città. Ma se rovesciassimo lo sguardo e pensassimo che questo parco fa parte di una specie di interno a cui arrivo da una polarità di luoghi, come in una sorta di altra centralità non legata ad un centro prevalente ma invece ad una disseminazione di centri? Un po’ come quello che aveva intuito Kant, ma anche Sloterdijk nel suo “L’ultima sfera” in cui fa riferimento a questo mondo-serra in cui tutto è precipitato all’interno, dove questa continuità della sfera fa sì che non ci sia più un tavolo esteso, in cui c’è un punto e poi un lembo periferico, ma dove tutto si sussegue e si succede, e quindi c’è bisogno di trovare una rete di relazioni ovunque.

Ludovico Romagni In conclusione, ti andrebbe di dare un consiglio ai nostri giovani e disorientati architetti?

Pepe Barbieri Io credo che le riviste e le mostre di architettura ci stanno abituando troppo all’idea che l’architettura sia qualcosa che ha bisogno di una prova di sé eroica, muscolare. Al contrario -facevo il caso della Grasso Cannizzo- io credo che oggi dobbiamo capire come possiamo contribuire, con azioni anche minime ma efficaci all’interno di una visione forte e generale, a concorrere alla trasformazione dello spazio dell’abitare. A far sì che nella continua trasformazione degli spazi queste azioni siano consapevolmente condivise. Sono attratto, per esempio, da quel lavoro che viene fatto nel mondo dell’urbanistica, ad esempio nel “tactical urbanism”, secondo lo slogan “azioni a breve termine per un cambiamento a lungo termine”. Lo spostamento dal compito presunto di indicare una previsione a quello di esplorare una possibilità. L’idea che io ti mostro, perché occupo con le sedie uno spazio; oppure metto il verde dove prima non c’era, che c’è un modo diverso di fare le città che rende, appunto, cooperanti e consapevoli gli abitanti. Pensiamo a quello che sta avvenendo a Barcellona con la proposta condotta da Gausa per le multiramblas: alcuni quadranti centrali all’interno delle grandi manzane (isolati) vengono depavimentati per diventare diversi luoghi pubblici. Capire che si può intervenire sulla città con azioni tutto sommato semplici, capaci di innalzare di molto la qualità, sarebbe un grande servizio del mondo degli architetti giovani alla società.

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