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La Chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano di Paolo Portoghesi e Giovanna Massobrio

Giuseppe Bonaccorso

La Chiesa dei SS. Cornelio e Cipriano di Paolo Portoghesi e Giovanna Massobrio a Calcata nell’alveo delle sperimentazioni tipologiche romane post conciliari

Abstract

Il saggio prende in esame le vicende progettuali della chiesa dei Ss. Cornelio e Cipriano di Paolo Portoghesi e Giovanna Massobrio a Calcata Nuova nell’alveo delle sperimentazioni tipologiche romane post conciliari. Lo studio ricostruisce le fasi costruttive della chiesa analizzandone anche i significati simbolici che sono alla base della costruzione, la quale presenta anche sperimentazioni tecniche individuabili nell’uso della prefabbricazione. Al progetto strutturale, a cui ha collaborato l’ingegnere Antonio Michetti, si affianca quindi la lettura di quello architettonico nel quale sono presenti numerosi rimandi all’architettura tardobarocca. La chiesa, la cui forma stellare in alzato è denunciata da un originale tiburio di rilevanti dimensioni, riallaccia un dialogo con valle del Treja in cui è inserita la città antica e la sua addizione novecentesca

The article examines the project of the church of Sts. Cornelio and Cipriano and Giovanna Massobrio in Calcata Nuova within the post-conciliar Roman typological experimentations. The study rebuilds the construction phases of the church, also analyzing the symbolic meanings that are the basis of the building, which also presents technical experiments of the use of prefabrication. In addition to the structural project, to which the engineer Antonio Michetti collaborated, there is also the reading of the architectural project in which there are numerous references to Baroque architecture. The church, whose stellar form in elevation is characterized by an original big tiburio, reconnects a dialogue with the valley of the Treja in which is inserted the ancient city and its twentieth-century-addition.

Keywords

Calcata, SS. Cornelio e Cipriano, Paolo Portoghesi, Massobrio, Concilio Vaticano II

“E, dopo una trincea tra pareti verticali, ecco una visione anche più irreale. Calcata sorge in mezzo alla valle, isolata da ogni parte, su di un cocuzzolo erto, ma spianato in alto, e quasi rotondo, simile ad un’enorme torta. Il Treja ne aggira il piede, in basso, corrodendolo. In alto, sul breve pianoro, s’addensano le case, così compatte e strette fra di loro in un secolare abbraccio che – dall’esterno – sembra quasi che non vi si possa penetrare né circolare. Tutto è bruno di tufo, in un solo immenso monocromato […]. Soltanto una specie di stretto istmo congiunge l’isolato paese al mondo esterno; e la nostra via, che lo percorre, s’arresta ai piedi delle mura, altissime su questo lato”1.
Luciano Zeppegno descrive così, nel 1957, il fascino che evocava Calcata immersa nel suo mirabile isolamento. Ma negli anni successivi questa visione bucolica, pur se non in modo sostanziale, mutò soprattutto nel terreno che, contraddistinto da morbide ondulazioni, collegava il paese all’entroterra e alla via Flaminia. Per scongiurare pericoli derivanti da possibili crolli e fessurazioni alla struttura tufacea del paese antico, si incentivò così un graduale spostamento degli abitanti proprio verso l’area attigua al paese oggi chiamata Calcata nuova. Con la realizzazione di una nuova strada che, scavalcando la valle del Treja, metteva in connessione Mazzano Romano con Calcata veniva inoltre creata una bretella che, unendo di fatto la Flaminia con la Cassia, privava Calcata del suo incontaminato e secolare isolamento. Scongiurata poi la precaria staticità dell’altipiano su cui giace tuttora il paese medievale, a partire dagli anni Ottanta del Novecento si avviava un insperato ripopolamento del borgo con nuovi residenti, spesso intellettuali e ambientalisti in buona parte forestieri, che contribuirono, insieme con la creazione del parco regionale del fiume Treja, alla sua valorizzazione turistica.
Questa premessa è obbligatoria per fornire le coordinate in cui si muove Paolo Portoghesi quando nel 2001 è incaricato della costruzione di una nuova chiesa nella parte nuova del paese2. Portoghesi aveva già da tempo scelto Calcata come luogo di studio e di lavoro, prima realizzando una piccola casa per il week-end e successivamente trasferendo prima lo studio e poi la sua residenza nell’appartato paesino dell’Etruria meridionale. Come è noto la casa di Portoghesi, che si è ampliata negli anni, è un gioiello di adattamento al territorio, in essa oltre alla residenza vi sono biblioteche, giardini, recinti per animali, in pratica un rifugio familiare incastonato nella brulla campagna romana.
In questo ambito paesaggistico una committenza ecclesiastica ha invitato Portoghesi a confrontarsi con i problemi collegati alla realizzazione di una chiesa in un’area di nuova edificazione: dal rapporto con un contesto urbano frammentato costituito da fabbricati senza particolare qualità, tuttavia ubicato in diretta vicinanza con il paese antico che viceversa sembrava scolpito nel tufo amalgamandosi perfettamente con la natura circostante. Un’altra sfida era poi identificabile con la necessità di adottare un linguaggio architettonico che favorisse la riconoscibilità e l’identità del nuovo santuario.
In pratica bisognava progettare una chiesa di modeste dimensioni, con uno spazio interno raccolto, e di raccordarla alla tradizione storica di questo luogo in cui un vecchio paese, isolato su una rupe di tufo incastonato in una frastagliata vallata, gradualmente si era svuotato dei suoi abitanti che si erano trasferiti in questa appendice moderna e sostanzialmente anonima. La programmazione della costruzione della chiesa dei Santi Cipriano e Cornelio, consacrata il 28 giugno 2009, si colloca quindi in un quadro molto più ampio di evangelizzazione edilizia delle periferie3. Un tema progettuale molto sentito a cavallo del Giubileo del 2000.
Ma l’occasione da cui parte la vicenda realizzativa della chiesa ha origini anteriori. In breve, nel 1996, durante una visita pastorale a Calcata Nuova, il vescovo delle Diocesi di Civita Castellana, Mons. Divo Zadi, vide che la comunità parrocchiale si radunava all’interno di un semplice capannone sito di fronte al nuovo municipio. La vista di questa situazione provvisoria lo indignò, soprattutto se il fabbricato si fosse paragonato con l’antica chiesa del SS. Nome di Gesù ubicata nel paese medievale che era viceversa valorizzata sia dal pregevole interno a navata unica coperta da un soffitto a capriate sia dai numerosi stucchi e dalle preziose opere d’arte. Questo aspetto precario fece sì che la Diocesi si impegnasse nella realizzazione di una nuova chiesa parrocchiale, la quale fu programmata sin da principio con un’attenta redistribuzione delle risorse finanziarie che dovevano comprendere anche le spese per la creazione di opere d’arte che dovevano caratterizzare l’interno del nuovo spazio religioso4.
Paolo Portoghesi si era già misurato con la progettazione di edifici ecclesiastici, ma a parte la realizzazione della chiesa della Sacra Famiglia di Salerno (1969-1974)5, tutti gli altri progetti erano piuttosto recenti6, pur considerando la chiesa come un argomento centrale per la progettazione. In questo ambito, nel 1997 inizia la progettazione della chiesa della Madonna della Pace a Terni (poi conclusa nel 2003) che anticipa alcuni temi poi ripresi e ampliati nei disegni per l’edificio sacro di Calcata Nuova7. In questa fase temporale si inserisce anche il progetto di concorso per il complesso parrocchiale del Redentore di Modena (elaborato tra il 2000 e il 2001) che, sviluppato contemporaneamente alla genesi della chiesa calcatese, esplora il tema della centralità e della forma stellare pur con sostanziali differenze individuabili nella planimetria, nelle dimensioni, nei materiali e nella profusione della luce bianca che entra dall’alto, ma anche trasversalmente dalle fessure inserite nel tiburio8. Qui lo Studio Portoghesi si riallaccia anche all’esperienza dell’architettura alpina di Bruno Taut (1880-1938) e ad alcuni interni scandinavi del Novecento.
A Calcata, invece, l’idea di base del progetto, firmato da Paolo Portoghesi e da sua moglie Giovanna Massobrio, scaturisce dalla volontà di costruire un edificio, molto diverso da una chiesa tradizionale, che riuscisse a trasmettere nel suo interno una sensazione di trascendenza, ma anche di calore. In pratica la sfida era tentare di plasmare uno spazio sacro, ridotto e accogliente come il cuore di una conchiglia, da destinare ad una piccola comunità.
Questa sensazione di trascendenza doveva essere espletata da una luce zenitale che giungeva all’interno attraverso un cono luminoso improntato come una camera di luce barocca. La luce, infatti, scendendo dall’alto permea i fedeli che, raccolti in preghiera, assistono alla celebrazione eucaristica. Lo stesso meccanismo barocco è utilizzato per far discendere una speciale luminosità dai riflessi azzurri nell’abside che, viceversa, scendendo alle spalle di un Cristo di terracotta scolpito da Paolo Borghi, ne determina la levità mentre ascende verso il cielo. Un meccanismo quindi, che ha radici remote, che si possono ritrovare forse nel lavoro di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) per Sant’Andrea al Quirinale, dove addirittura l’Apostolo è rappresentato due volte (prima dipinto crocefisso sulla terra, poi scolpito sopra la trabeazione che ascende verso il cielo), davanti a una parete celeste9. Tra la parete e le rappresentazioni del santo (pittorica e scultorea) potremmo in qualche modo intravedere la luce che dall’alto scende sulla terra. Il meccanismo scenografico che utilizza Portoghesi ha certamente diverse analogie con la fonte di luce nascosta che contraddistingue l’illuminazione dell’altare della celebre chiesa barocca romana.
L’edificio di Calcata ha poi il pregio di chiudersi in sé stesso quasi ad abbracciare i calcatesi e questa chiusura, suggerita dalla sinuosa articolazione dei muri perimetrali, riesce a ricreare quel sentimento di raccoglimento tra i fedeli che, aspettando l’arrivo della luce dall’alto, evocano loro stessi il mistero della Pentecoste. Per agevolare questa atmosfera, Portoghesi lavora sulla grande apertura centrale stellare che squarcia la volta della chiesa. Una luce diretta che viene esaltata dalla contemporanea mancanza di qualsiasi apertura laterale nei muri perimetrali della chiesa. In questo modo, sembrano essere presenti simultaneamente da una parte una chiusura al mondo esterno, dall’altra un invito alla trascendenza attuata attraverso la stessa luce che giunge dal cielo. Adottando questa complessa scelta progettuale, Portoghesi sembra voler far coincidere con la chiesa una rappresentazione poetica dello stesso paese arroccato su un instabile pianoro circolare, nel quale le sue strade ricevono la luce solo dal cielo.
Tornando alla chiesa, si può notare come l’illuminazione si intensifichi attraverso un lucernaio che la filtra e la frantuma mentre scende verso il basso grazie all’azione separatrice provocata dal profilo stellare dell’apertura centrale interna. Portoghesi afferma che si può trovare una similitudine con l’oculo del Pantheon10, un altro edificio che non riceve luce da finestre nel tamburo, ma solo ed esclusivamente dall’alto. Tale affermazione suona in realtà un po’ come una risposta alla critica di alcuni calcatesi che temevano, durante la costruzione, che la chiesa fosse sostanzialmente buia.
Soltanto al termine del cantiere tutti compresero che l’illuminazione era più che sufficiente, essendo stata calcolata nella misura giusta per far sembrare la luce stessa un’espressione della presenza della divinità. Tutto ciò contribuisce a creare uno spazio in qualche modo raccolto (quasi compresso) che rimanda all’idea della preghiera.
Anche all’esterno la chiesa vuole essere una rievocazione del paese vecchio. Il perimetro murario esterno e il suo tiburio stellare sono anch’essi rivestiti di tufo e, proporzionalmente, le dimensioni di tutta l’opera sono in qualche modo paragonabili con le mura ideali del borgo antico. In questo modo, l’architetto coglie l’occasione di portare simultaneamente della qualità estetica in uno slargo urbano altrimenti anonimo attraverso un’articolazione geometrica verticale data dall’innesto del tiburio stellare nello zoccolo tufaceo e di esprimere così un ulteriore ricordo del paese abbandonato.
Sin dai primi schizzi progettuali Portoghesi si è concentrato sul tiburio centrale. Per creare un adeguato incastro tra i volumi del tiburio e del basamento era necessario progettare un articolato apparato strutturale, per la cui realizzazione viene coinvolto l’ingegnere Antonio Michetti (1927-2010), già spesso consulente per la commissione di “Arte Sacra” del Vaticano per alcune delle maggiori chiese costruite a Roma a cavallo del Giubileo (per tutte, la chiesa nota come “Dives in Misericordia” di Richard Meier a Tor Tre Teste). Portoghesi e Michetti, che per anni fu un docente di Tecnica delle Costruzioni nella facoltà di architettura della Sapienza di Roma, nonché allievo di Pier Luigi Nervi (1891-1979) e Gaetano Minnucci (1896-1980), decidono di realizzare una struttura che si prestasse alla prefabbricazione. Tale scelta era determinata sia per consentire una rapida cantierizzazione, sia perché la costruzione di un edificio sacro prefabbricato poteva essere da esempio in un momento in cui si sentiva la necessità di costruire molte nuove chiese come luogo identitario, nonché di incontro, nelle periferie.
L’esperimento, che Portoghesi definisce “straordinario”11, consiste nel separare gli elementi costruttivi fondamentali dal resto della costruzione che si completava con tamponature costituite da blocchetti di tufo. Quindi, già in fase di fabbricazione, si poteva osservare come la forma della chiesa fosse suggerita dalla sequenza radiale dei sette speroni triangolari (che poi diventano 14) attraverso la connessione con le travi di coronamento. Tutti gli elementi sono realizzati in officina e collegati tra loro con elementi mediani che hanno sempre la stessa forma triangolare.
Sopra a questa struttura di travi si elevano i diedri delle pareti del tiburio. Quest’ultimi, costituiti da elementi prefabbricati e anch’essi rivestiti esternamente di tufo, si aprono progressivamente verso l’alto. La messa in opera di questi elementi, arrivati nel cantiere calcatese su dei camion dalla vicina Orte, fu un momento emotivamente coinvolgente di partecipazione locale. Terminato il montaggio della struttura in cemento prefabbricato è stata sovrapposta la copertura diafana stellare lignea.
Gradualmente si vedeva come da questa serie di cavalletti, che già indicavano la conformazione del nucleo centrale, si formava uno spazio racchiuso con una forma stellare che si espandeva con i muri inclinati verso l’alto disobbedendo alla cosiddetta regola del filo a piombo. Tutto ciò dava l’impressione di costituire un reciproco rapporto tra il fedele e la trascendenza. Seguendo le testimonianze di Portoghesi l’intento era di costituire un rapporto tra la preghiera che sale verso l’alto e l’amore divino che ridiscende per conseguenza verso il basso. Questo meccanismo di reciprocità è materializzato dalla luce, in quanto in questo spazio complesso, come già anticipato, l’unica fonte luminosa è quella che viene dall’alto. La prefabbricazione ha consentito di realizzare la chiesa in meno di tre anni (tra il 2006 e il 2009.
Dopo le motivazioni progettuali, si può descrivere con maggiore precisione la struttura del progetto in pianta e in alzato. La pianta della zona basamentale, bassa e realizzata in blocchetti tufacei, è organizzata secondo una conformazione planimetrica che rimanda mnemonicamente ai due triangoli sovrapposti di Sant’Ivo alla Sapienza di Francesco Borromini (1599-1667). Attorno allo spazio centralizzato si dispongono dei vani poligonali identificabili con il battistero, la sagrestia e un ambiente raccolto per la confessione. La spazialità si dilata in altezza attraverso un alto tiburio stellare, nervato al suo interno dai sostegni in cemento armato che sorreggono attraverso delle mensole triangolari una stella lignea che in trasparenza filtra la luce del lanternino dividendo di fatto la verticalità in due zone distinte ma permeabili. La matrice geometrica di base del tiburio è un poligono di sette lati, quindi una figura geometrica eptagona (cioè di sette lati) che ancora una volta rimanda a impianti barocchi borrominiani. Naturalmente il sette è anche un numero legato alla spiritualità cristiana e giudaica, in quanto sette sono anche i giorni della settimana, i Sacramenti, i doni dello Spirito Santo, le virtù, i dolori della Vergine mentre, il suo multiplo quattordici equivale alle stazioni della Via Crucis. Il passaggio tra le due zone è segnato da una sorta di trabeazione liscia in cemento di forma stellare, che funge da corona e su cui si frantuma e si smaterializza la luce.
Nello spazio urbano si erge quindi la chiesa che costituisce un evidente landmark, visibile anche a grande distanza il quale, dichiaratamente, sia nel basamento radicato nel terreno e circondato da un prato sia nella verticalità esplosiva del tiburio, vuole ricordare le case che coronano la rupe in armoniosa continuità e l’elevazione verso il cielo rispetto alla vallata dove scorre il Treja12.
La distribuzione dello spazio liturgico segue quasi un percorso processionale in quanto il fedele pur attraversando uno spazio centralizzato è orientato verso un tragitto che lo porta ad attraversare il piccolo portale d’ingresso e a percorrere anche visivamente l’atrio, il deambulatorio anulare, la mensa, l’abside con l’altare (contenente l’immagine del Cristo risorto) che indirizza, alla fine, lo sguardo del pellegrino verso l’alto dove c’è la comunione con il cielo. Con questo meccanismo biunivoco la presenza del sacro nella chiesa diventa tangibile13, per quanto espresso dai fasci di luce che vengono generati dalle travi lignee che incrociandosi verso l’alto formano il motivo stellare e reggono le tavole da cui sorge il lucernaio. Un occhio superficiale può trovare stringenti analogie formali con precedenti lavori di Portoghesi, o con le volte stellari delle chiese torinesi di Guarino Guarini (1624-1683) o con quella degli Angeli Custodi del quartiere romano di Città Giardino Aniene di Gustavo Giovannoni (1673-1947), ma un’osservazione più attenta invece l’esclude proprio per il legame diretto che Portoghesi vuole intessere con la comunità locale. Inoltre, la chiesa presenta una quantità di legno alquanto inusuale se confrontata con i citati esempi desunti dalla storia. Il legno è la materia delle travi, dei banchi, dell’ambone, delle acquasantiere, della sede vescovile e la sua impronta si rilegge nelle casseforme del cemento. Del legno, in questo caso lamellare, è presente anche nella copertura (unito all’acciaio). Tutto ciò mostrano la pratica del “fare” di questa piccola comunità laziale, nonché ricordano il ruolo di costruttore della fede che aveva rivestito Gesù, anche lui falegname, nella sua prima giovinezza. L’uso dell’intonaco bianco, del tufo, del peperino nel pavimento accoppiato alle pianelle, mostra come si può costruire un’opera complessa partendo dall’utilizzo di materiali, tra virgolette, poveri o meglio consueti nella tradizione costruttiva della campagna romana.
Da quanto detto si percepisce come le opere d’arte contenute nella chiesa facciano parte di un programma iconologico perfettamente integrato con il progetto architettonico generale. In questo quadro sono menzionabili: le statue in terracotta dei santi titolari Cornelio e Cipriano, l’altare ancora in terracotta, dietro il quale vi è l’immagine policroma del Cristo Risorto e le statue in bronzo della Vergine, tutte opere dello scultore varesino Paolo Borghi; inoltre la vetrata istoriata posta sopra il portale d’ingresso di Rita Rivelli e i grandi paesaggi che costituiscono gli affreschi murari delle cappelle laterali, i quali abbracciano virtualmente le statue poste nel centro. Tutte le opere pittoriche sono dell’umbro Luigi Frappi14. Tali affreschi sono molto importanti nella percezione dello spazio interno in quanto controbilanciano lo sguardo che istintivamente viene catturato dalla luce che discende dall’alto. Anzi la profondità degli affreschi di Frappi costringe il visitatore a voltarsi e a inserirsi all’interno di un paesaggio come fosse un moderno diorama15. Alla fine, quindi, questi affreschi innescano una visione immersiva con il paesaggio che invece è posto al di là della chiesa e di Calcata Nuova. Sembrerebbe anche che Frappi volesse riproporre la tradizione delle vedute prospettiche delle proprietà fondiarie affrescate nei saloni dei palazzi nobiliari che le principali famiglie romane detenevano nel Lazio. C’è rammarico nell’aver limitato solo a due spazi l’opera di Frappi, comprendendo pure, però, come una sua presenza maggiore avrebbe mutato gli equilibri architettonici, luministici ed economici della fabbrica. Tuttavia, questo legame tra architettura e arti decorative (come recitava il titolo di una nota rivista italiana della prima metà del Novecento), come pure tra gli arredi e le visuali prospettiche, è sicuramente un pregio dell’edificio di Portoghesi.
La familiarità di forme apparentate con la storia sono certamente presenti nella chiesa, anche se rimangono a un livello subliminale in quanto completamente trasfigurate e reinterpretate in modo personalissimo dai due progettisti che, tra l’altro, come accennato propongono pure soluzioni tecniche innovative e originali. L’inusuale struttura centralizzata trova quindi molteplici precedenti sia locali sia internazionali, e seppure sono percepiti da Portoghesi nella progressiva definizione dell’idea iniziale, essi sono probabilmente ignorati nella successiva elaborazione progettuale. All’uopo si deve ricordare che, dopo la riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II (1962-1965)16, sia a Roma come in provincia sono state realizzate diverse chiese sperimentali a pianta centrale. Osservandone alcune di queste, si può notare la complessità del progetto portoghesiano rispetto a esempi che in comune con l’edificio di Calcata avevano solo dei budget piuttosto limitati e il confronto con una periferia anonima seppur strettamente collegata all’edilizia storica delle città.
In questo quadro, forse non è inutile ricordare alcuni esempi, quali la chiesa di Gesù Divino Maestro alla Pineta Sacchetti di Carlo Bevilacqua edificata tra il 1966 e il 1967 dove in linea con le indicazioni del Concilio Vaticano II, l’architetto propose una avvolgente pianta circolare con il Presbitero irrorato dalla luce proveniente dal lanternino sovrastante; oppure la chiesa parrocchiale di San Luigi Grignon de Montfort costruita nei pressi di Primavalle da Francesco Romanelli (e realizzata tra il 1968 e il 1971) che presenta un parziale parallelismo con la chiesa calcatese per la parte basamentale. In questo contesto, si può inserire pure la chiesa di San Cleto di Ildebrando Savelli e Corrado Volpetti nel quartiere di San Basilo (1992-1995) per l’adozione di una copertura a tenda con travi di legno lamellare e lanternino. La chiesa di San Giovanni Evangelista a Spinaceto di Julio Lafuente (1921-2013) e Gaetano Rebecchini (1924-2020), consacrata nel 1969, è interessante invece per l’utilizzo di blocchetti di tufo in facciavista sia all’esterno sia all’interno e per l’area presbiterale inondata da un fascio di luce proveniente da un lucernaio. Pur nella loro esiguità numerica, si può comunque constatare come le chiese a pianta centrale poste nell’estrema periferia di Roma presentano la volontà comune di porsi al centro di questi anonimi quartieri cercando di divenirne anche un segno identitario17.
Si potrebbe dire che anche la chiesa di Portoghesi s’inserisce in questo quadro di nuove costruzioni, ma presenta ben altre complessità; e allora, benché l’impianto planimetrico sia differente, si possono trovare maggiori affinità con la chiesa romana di San Policarpo di Giuseppe Nicolosi (1901-1981) realizzata tra il 1964 e il 1967 nel quartiere Appio Claudio sia per il trattamento del paramento in peperino e mattoni in facciavista, sia per il confronto tra l’edilizia residenziale di un quartiere nuovo e la campagna romana. Ma si possono rileggere ulteriori congruenze anche per l’illuminazione interna della chiesa che discende dall’alto e per la sua matrice planimetrica stellare costituita dall’incastro di due triangoli equilateri che si sovrappongono e che vengono denunciati in alto dall’orditura delle travi formando nel centro un esagono iscritto. Ovviamente altri esempi che potremmo definire residenziali, sono sicuramente anche le costruzioni di Mario Ridolfi (1904-1984) del cosiddetto ciclo delle Marmore, in particolare ovviamente la Casa Lina, nel quale vi è anche un parallelismo con la chiesa di Calcata nell’uso di una pianta centrale a “gemmazione”, in particolare per alcune soluzioni poi accantonate dal maestro romano. Portoghesi forse le ha presente, ma non segue le peculiarità ridolfiane del trattamento delle pareti, scegliendo di adottare per l’interno della chiesa l’intonaco bianco, piuttosto che le materiche pareti in pietra a facciavista, mostrando così di preferirgli gli esempi dei maestri del passato quali Borromini e Michelangelo. Una scelta quindi indirizzata all’uso del colore (tra il bianco e l’azzurro), come peraltro già utilizzato sia pure con diverse finalità (e con l’aggiunta del verde), anche da Vittorio de Feo (1928-2002) nella cappella università dedicata a San Tommaso d’Aquino a Tor Vergata.
Ma la grande differenza con tutti questi esempi citati e l’edificio calcatese, sta sostanzialmente nella ricerca che Portoghesi persegue nel tema dell’illuminazione dall’alto che imprime un senso unitario alla celebrazione liturgica, ponendo l’accento sul conseguente utilizzo di un organismo architettonico verticalizzante che sia al contempo segnale urbano e sistema compositivo privilegiato che permette alla luce di indirizzarsi verso il centro della chiesa. La chiesa di Calcata così, anche per la più volte menzionata assenza di finestre, vive del contrasto tra le ombre e la potente luce indirizzata nel centro della chiesa, con l’aggiunta di una seconda camera di luce in corrispondenza dell’abside.
Anche in questo caso, l’estremo verticalismo del suo tiburio la accomuna a un altro capolavoro dell’architettura italiana: la parrocchiale di Santa Maria Maggiore di Ludovico Quaroni (1911-1987) costruita a Francavilla al Mare nell’immediato secondo dopoguerra. La chiesa abruzzese, dalle dimensioni senz’altro più ampie rispetto all’esempio laziale, ha comunque in comune la sostanziale mancanza di finestre in basso, come pure la preferenza di un’illuminazione che scende dall’alto attraverso la verticalità monumentale del tiburio. C’è da dire poi, che anche nella chiesa quaroniana è presente un dialogo serrato con le arti decorative, in quanto l’apparato ornamentale, in parte progettato da Pietro Cascella (1921-2008) è parte integrante del progetto iconologico e architettonico della chiesa.
Per certi versi riconducibile a una ricerca sulla luce che dall’alto invade l’area eucaristica si può menzionare pure il santuario dedicato alla Nostra Signora di Fatima di San Vittorino Romano ubicato appena fuori il Grande Raccordo Anulare. Cappella identificabile come un ultimo avamposto del comune di Roma in direzione est, ma già immersa compiutamente nella campagna romana. Progettata a partire dal 1971 da Lorenzo Monardo (1929-2018), il santuario pur presentando delle forme lontanissime dalle poetiche portoghesiane (essendo debitrice piuttosto delle opere dell’espressionismo tedesco) è un vero e proprio landmark.
Un parallelismo più evidente nei confronti del disegno strutturale interno all’esempio di Calcata si può ritrovare anche nella chiesa di Raffaello Fagnoni (1901-1966) consacrata a Gesù Divino Lavoratore edificata nel 1955 a Roma. Anche la chiesa di Fagnoni, presenta un utilizzo quasi organico delle costolanature di cemento armato che contemporaneamente ottemperano a un duplice compito strutturale ed estetico nell’interno della chiesa. Qui Fagnoni disegna un’unica aula ovale la cui volta è solcata da un’orditura di travi sorrette da quattordici pilastri radiali, a loro volta, rivestiti in pietra nella parte basamentale. La chiesa che manca però della verticalità di un tiburio centrale, sembra far riferimento alle volte solcate dalle costolanature diagonali che caratterizzano molti edifici sacri dal carattere tardobarocco dell’Europa centrale (da Johann Blasius Santini Aichel ai Dientzenhofer).
Gli esempi citati sono forse conosciuti dai nostri progettisti, anche se dubitiamo possano aver influenzato direttamente la progettazione della costruzione di Calcata che, come spiegato, parte sì da uno studio per il complesso parrocchiale del Redentore di Modena, ma successivamente piegato al territorio, ai costumi locali della Tuscia e a un significato iconologico che è estraneo a una riproposizione meramente stilistica di esempi precedenti. In ogni caso i diversi modelli citati ci mostrano come la chiesa di Portoghesi faccia convincentemente parte di un momento piuttosto ampio della cultura architettonica italiana, e romana in particolare, che si rivolge alla proposizione di nuove tipologie ecclesiastiche che fanno i conti con la storia, ma soprattutto con il tentativo di qualificare e dare centralità a periferie che altrimenti non avrebbero dei luoghi di identificazione collettiva. In questo senso, sono certo discutibili alcune critiche che dal web hanno investito la chiesa calcatese sovente associata spiritosamente a iconici oggetti di design. Questa associazione, comunque, testimonia indirettamente come l’obiettivo di Portoghesi di creare un’immagine coincidente con un landmark (e un genius loci), sia stato sostanzialmente raggiunto. Citando l’elenco delle critiche che Borromini riceveva dai suoi contemporanei, non possiamo non ricordare come per le sue forme innovative e originali persino la cupola di Sant’Ivo alla Sapienza, ancora nell’Ottocento, veniva definita un “cavatappi.
Comunque, il debito della chiesa di Portoghesi con l’architettura storica esiste, ma è da ricercare piuttosto che nell’edilizia sacra del Novecento, nelle complesse strutture lignee delle volte dei palazzi rinascimentali di Tarquinia e della Tuscia, nelle planimetrie rielaborate dei tempietti antichi ubicati nella campagna romana e pubblicati nel Seicento da Giovanni Battista Montano (1534-1621)18, oppure negli esempi di spazi centralizzati barocchi dalla complessa incidenza luministica, opera di Bernardo Antonio Vittone (1704-1770), di Guarino Guarini (come si è già detto sopra), e soprattutto di Francesco Borromini. Si pensi alla soluzione planimetrica di Sant’Ivo, al tiburio di Sant’Andrea delle Fratte, alla torre dell’orologio dell’Oratorio dei Filippini, tutti esempi pervasi dall’incidenza mutevole della luce che Portoghesi reimpiega per caratterizzare esternamente le pareti tufacee del basamento della chiesa, oppure per alimentare, attraverso l’apertura stellare interna al tiburio, la prorompente spiritualità nello spazio intimo dell’aula.

Note

1L. Zeppegno, Lazio sconosciuto. Le Gole del Treia, in “Le Vie d’Italia”, LXIII, 7, luglio 1957, pp. 905-916 [915-916].
2Sulle vicende relative alla realizzazione della nuova chiesa si vedano le seguenti sintesi: S. Barbagallo, Una cittadella ideale dove domina la luce (Paolo Portoghesi), in “L’Osservatore Romano”, 21-22 settembre 2009; P. Portoghesi, Chiesa dei SS. Cipriano e Cornelio a Calcata, Viterbo, in “Chiesa oggi: architettura e comunicazione”, 88, 2009, pp. 33-42; G. Pullara, La stella di Portoghesi, in “Corriere della Sera”, ed. romana, 29 giugno 2009, p. 12.
3All’interno di una bibliografia sterminata si rimanda al mio testo sulla chiesa del Giubileo di Roma e ai rapporti con la periferia: G. Bonaccorso, La chiesa di Richard Meier a Tor Tre Teste e il suo contributo al consolidamento identitario dei nuovi quartieri della periferia romana oltre il GRA, in Periferie. Dinamiche economiche territoriali e produzione artistica, numero tematico de “Il Capitale Culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage”, X, 2014, pp. 439-469 (con bibliografia).
4Per quanto non direttamente giustificato si rimanda ad: Anna Rita Emili, Ludovico Romagni (a cura), 10 domande a Paolo Portoghesi, www.entervista.unicam.it
5B. Chavardes, De Francesco Borromini à Paolo Portoghesi. L’église de la Sacra Famiglia à Salerne, in “Livraisons d’histoire de l’architecture”, 27, 2014, pp. 21-31.
6Tra gli altri si possono menzionare il progetto per una chiesa nel quartiere romano di Tor Tre Teste del 1994, il progetto e la seguente realizzazione della chiesa di S Maria della Pace a Terni (1997-2003), gli elaborati per il complesso parrocchiale di S. Giuseppe Artigiano a Modena del 2000, il progetto del 2001 per la chiesa di S. Francesco d’Assisi a Castellaneta (Ta) e nello stesso anno l’inizio della progettazione della chiesa di Calcata.
7Sulla chiesa di Terni si veda almeno: P. Portoghesi, Terni, chiesa di Santa Maria della Pace e della Santissima Trinità, 1997, in G. Massobrio, M. Ercadi, S. Tuzi, Paolo Portoghesi architetto, Skira, Milano, 2001, pp. 260-261; P. Mattei, Nel silenzio delle nostre chiese. Intervista con Paolo Portoghesi, in “30 GIORNI nella Chiesa e nel mondo”, XXIX, 11, 2011, pp. 60-67; C. Duca, Un esempio di committenza della Diocesi di Terni, in “Arte Cristiana”, CI, 876, 2013, pp. 161-164.
8All’uopo si veda: P. Portoghesi, Modena, progetto di concorso per il complesso parrocchiale del Redentore, 2000-01, in G. Massobrio, M. Ercadi, S. Tuzi, Paolo Portoghesi architetto, Skira, Milano, 2001, p. 277.
9La pala d’altare rappresentante il “Martirio di Sant’Andrea apostolo” di Jacques Courtois detto il Borgognone è del 1668, mentre la statua di sant’Andrea apostolo in gloria che poggia sul timpano sovrastante, di Ercole Antonio Raggi è stata realizzata tra il 1662 e il 1665. La regia è ovviamente berniniana.
10Giorgio Tartaro intervista Paolo Portoghesi a Calcata, TV Leonardo - Casa & Stili, A2, https://www.youtube.com/watch?v=alAzxJskilo, consultato il 09/09/20.
11Cfr. Anna Rita Emili, Ludovico Romagni (a cura), 10 domande a Paolo Portoghesi, www.entervista.unicam.it.
12P. Portoghesi, Chiesa dei SS. Cipriano e Cornelio a Calcata, Viterbo, in “Chiesa oggi: architettura e comunicazione”, 88, 2009, pp. 33-42.
13All’uopo vedi il saggio di P. Portoghesi, Geomorfismo, archetipi e simboli in architettura, in Agathòn, 02, 2017, pp. 11-24, contenente diversi elaborati di progetto della chiesa di Calcata firmata da Paolo Portoghesi e Giovanna Massobrio.
14Per una istantanea degli interni ed esterni della chiesa si rimanda all’apprezzabile corto di Giovanni Carpentieri, La chiesa di Paolo Portoghesi a Calcata, https://www.youtube.com/watch?v=iy9wHt2HFgY, consultato il 07/09/20.
15Anche in questo caso, Portoghesi ci fornisce la motivazione della scelta degli artisti: “Già da tempo avevo fatto delle esperienze di collaborazione con Paolo Borghi che è uno scultore che vive a Varese e che aveva fatto una grande mostra alla Galleria Apollodoro che era gestita da mia moglie. E quindi pensai subito a lui, Così come pensai di coinvolgere un pittore che io amo moltissimo, un pittore di paesaggio Luigi Frappi e che ha costruito le grandi tele che fanno da sfondo a queste figure dei due santi titolari della chiesa e della Madonna” (cfr. Annarita Emili, Ludovico Romagni (a cura di), 10 domande a Paolo Portoghesi, www.entervista.unicam.it).
16Sul dibattito post-conciliare in relazione alle proposte di Portoghesi, si vedano: P. Portoghesi, L’intervento di Paolo Portoghesi dibattito sull’architettura sacra postconciliare, in “Arte Cristiana”, CII, 883, 2014, pp. 245-248, come pure: M. Abeti, Intervista al di là dell’architettura, una esperienza sacra con Paolo Portoghesi, in “Chiesa Oggi”, 110, 2019.
17Per comprendere il rapporto tra la chiesa e periferia che cresce, è sempre utile consultare i primi numeri della rivista “Chiesa e Quartiere”. Per un approfondimento si veda: G. Gresleri, M.B. Bettazzi, G. Gresleri, Chiesa e quartiere. Storia di una rivista e di un movimento per l’architettura a Bologna, Compositori, Bologna, 2004. Invece, per ciò che attiene il panorama romano cfr.: S. Mavilio, Guida all’architettura Sacra Roma 1945-2005, Electa, Milano, 2006. Tra esempi meno qualitativi, ma pur sempre significati del rapporto tra chiesa centralizzata e periferia si vedano anche alcune parrocchiali di Roma Est ubicate oltre il Grande Raccordo Anulare. In particolare: San Bernardino da Siena a Torre Gaia, San Girolamo Emiliani a Casal Morena, Santa Rita a Torre Angela e Santi Simone e Giuda Taddeo ancora a Torre Angela.
18G.B. Montano, Scielta di varii tempietti antichi: con le piante et alzatte desegnati in prospettiva, Soria, Roma, 1624.

Bibliografia

- Abeti Maurizio, Intervista al di là dell’architettura, una esperienza sacra con Paolo Portoghesi, in “Chiesa Oggi”, 110, 2019.
- Barbagallo Sandro, Una cittadella ideale dove domina la luce (Paolo Portoghesi), in “L’Osservatore Romano”, 21-22 settembre 2009.
- Bonaccorso Giuseppe, La chiesa di Richard Meier a Tor Tre Teste e il suo contributo al consolidamento identitario dei nuovi quartieri della periferia romana oltre il GRA, in Periferie. Dinamiche economiche territoriali e produzione artistica, numero tematico de “Il Capitale Culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage”, X, 2014, pp. 439-469.
- Chavardes Benjamin, De Francesco Borromini à Paolo Portoghesi. L’église de la Sacra Famiglia à Salerne, in “Livraisons d’histoire de l’architecture”, 27, 2014, pp. 21-31.
- Duca Celina, Un esempio di committenza della Diocesi di Terni, in “Arte Cristiana”, CI, 876, 2013, pp. 161-164.
- Gresleri Glauco, Bettazzi Maria Beatrice, Gresleri Giuliano, Chiesa e quartiere. Storia di una rivista e di un movimento per l’architettura a Bologna, Compositori, Bologna, 2004.
- Massobrio Giovanna, Ercadi Maria, Tuzi Stefania, Paolo Portoghesi architetto, Skira, Milano, 2001.
- Mattei Paolo, Nel silenzio delle nostre chiese. Intervista con Paolo Portoghesi, in “30 GIORNI nella Chiesa e nel mondo”, XXIX, 11, 2011, pp. 60-67.
- Mavilio Stefano, Guida all’architettura Sacra Roma 1945-2005, Electa, Milano, 2006.
- Montano Giovanni Battista, Scielta di varii tempietti antichi: con le piante et alzatte desegnati in prospettiva, Soria, Roma, 1624.
- Portoghesi Paolo, Modena, progetto di concorso per il complesso parrocchiale del Redentore, 2000-01, in Massobrio Giovanna, Ercadi Maria, Tuzi Stefania, Paolo Portoghesi architetto, Skira, Milano, 2001, p. 277.
- Portoghesi Paolo, Terni, chiesa di Santa Maria della Pace e della Santissima Trinità, 1997, in Massobrio Giovanna, Ercadi Maria, Tuzi Stefania, Paolo Portoghesi architetto, Skira, Milano, 2001, pp. 260-261.
- Portoghesi Paolo, L’intervento di Paolo Portoghesi dibattito sull’architettura sacra postconciliare, in “Arte Cristiana”, CII, 883, 2014, pp. 245-248.
- Portoghesi Paolo, Chiesa dei SS. Cipriano e Cornelio a Calcata, Viterbo, in “Chiesa oggi: architettura e comunicazione”, 88, 2009, pp. 33-42.
- Portoghesi Paolo, Geomorfismo, archetipi e simboli in architettura, in “Agathòn”, 02, 2017, pp. 11-24.
- Pullara Giuseppe, La stella di Portoghesi, in “Corriere della Sera”, ed. romana, 29 giugno 2009, p. 12.
- Zeppegno Luciano, Lazio sconosciuto. Le Gole del Treia, in “Le Vie d’Italia”, LXIII, 7, luglio 1957, pp. 905-916.

Sitografia

- Carpentieri Giovanni, La chiesa di Paolo Portoghesi a Calcata, https://www.youtube.com/watch?v=iy9wHt2HFgY, consultato il 07/09/20.
- Emili Anna Rita, Romagni Ludovico (a cura), 10 domande a Paolo Portoghesi, www.entervista.unicam.it.
- Giorgio Tartaro intervista Paolo Portoghesi a Calcata, TV Leonardo - Casa & Stili, A2, https://www.youtube.com/watch?v=alAzxJskilo, consultato il 09/09/20.

Didascalia dell’immagine

Chiesa dei Ss. Cornelio e Cipriano, particolare del lucernaio centrale.