La ricerca di ieri nel progetto di oggi

Umberto Cao

C’è un concetto che Paolo Desideri ama ripetere quando viene invitato ad illustrare il suo lavoro (e di cui parla anche nel video qui presentato) che cercherò di riassumere. Il progetto di architettura è il risultato di una serie di interferenze tra i problemi che stanno a monte e a valle dell’idea progettuale: problemi che attengono alla committenza, ai finanziamenti e, per le opere pubbliche, anche alla politica; e problemi che intervengono quando il progetto deve essere predisposto per la fase costruttiva. Le diverse problematiche si pongono generalmente in termini conflittuali tra loro apparendo spesso inconciliabili. Si chiede Desideri: quale è lo strumento in mano all’architetto per dipanare i conflitti e consentire all’opera di realizzarsi? La risposta è che l’unico dispositivo in grado di raccordare tematiche di base, idea architettonica, costi ed esigenze strutturali ed impiantistiche è la “forma” che l’architetto è in grado di restituire nell’opera compiuta. Nell’intervista Desideri conclude testualmente: “Per risolvere questi problemi esiste solo una chiave che è la forma, la capacità della forma di costruire le condizioni di questo miracoloso equilibrio tra istanze tra loro conflittuali. Il punto è che, nei sistemi complessi, la creatività e la forma assumono un ruolo - uso una parola importante - etico”.
Possiamo assumere questa affermazione come snodo del transito di Paolo Desideri e del suo gruppo ABDR ad una fase diversa dell’attività di ricerca e progettazione. Come scrive Dario Costi1 ricordando gli anni della Stazione Tiburtina, “nella prima decade degli anni duemila si concretizza la trasformazione da studio ad office d’architettura con la moltiplicazione dei collaboratori, il consolidamento di una serie di rapporti professionali con aziende e consorzi di imprese di livello internazionale, la confidenza con le più complesse e impegnative modalità di affidamento tecnico e la partecipazione a concorsi alla scala globale”. Ma sarebbe riduttivo motivare questo passaggio solo al moltiplicarsi delle occasioni professionali, così come sarebbe sbagliato non tenere conto dell’intero itinerario di ricerca che ha accompagnato il gruppo dalla sua formazione ad oggi.
Ci sono due passaggi dell’intervista nei quali Desideri è stato un po’ evasivo: quando gli sono state poste domande in merito alla ricerca iniziale sulla composizione architettonica e agli esiti delle riflessioni sulla Città di latta2, il libro che ha raccolto le sue osservazioni degli anni Novanta sulla città contemporanea. Io credo che l’intero itinerario di ricerca di Desideri e ABDR sia importante anche per capire opere recenti, come il Teatro dell’Opera di Firenze. Va fatta una premessa che in qualche modo mi riguarda, avendola anche io vissuta direttamente, per quanto più anziano di qualche anno.
La ricerca architettonica italiana negli ultimi trent’anni del secolo passato ha attraversato momenti diversi e contraddittori. Negli anni Settanta, dopo le fallite esperienze sulla grande dimensione e sulla megalopoli3, c’è stato un ripiegamento sul rapporto con la storia che ha trovato negli studi urbani delle facoltà di architettura di Venezia e Milano un punto di riferimento fondamentale. Erano gli anni della crisi petrolifera che segnò in Italia la fine del cosiddetto miracolo economico. Si costruiva poco, o, meglio, si costruivano solo palazzine o quartieri di edilizia economica e popolare, non opere pubbliche. La ricerca architettonica così si concentrò sul disegno, che prefigurava un universo figurativo colto, raffinato e ricco di idee, ma al di fuori della realtà costruttiva. Questa pratica, che non a caso prese il nome di “architettura disegnata”, appartenne soprattutto alla cosiddetta “scuola romana”, e sopravvisse sino al decennio successivo, concludendosi, a mio avviso, nella Biennale di Architetture di Venezia del 1985, affidata ad Aldo Rossi. Dalla mostra emersero figure internazionali come Venturi, Libeskind, Foster e Eisenman già in fase di successo professionale. Dopo di allora nella ricerca architettonica cambiò sia la visione della storia e della città, sia l’approccio al progetto. L’architettura della “tendenza” restò patrimonio di coloro che l’avevano definita e praticata (oltre Aldo Rossi, soprattutto Giorgio Grassi e Antonio Monestiroli) e di alcuni convinti seguaci. Si aprì una nuova stagione di ricerca, che guardava alla città contemporanea e ai fenomeni dello sprawl condizionando la ricerca architettonica alle più articolate e disinvolte forme della città diffusa. Per Paolo Desideri pesarono molto su queste tematiche l’esperienza didattica a Pescara e quella editoriale nella rivista Gomorra.
Come sempre nei momenti storici di transito tra diverse posizioni teoriche, il dibattito si accende e se dauna parte diventa difficile non prendere posizione, dall’altra è facile cadere in contraddizione e perdere una possibile coerenza teorica. Gli architetti ABDR hanno vissuto questi anni proprio nel momento della loro prima esperienza di architetti e di docenti. Alcuni si erano maggiormente legati ai docenti con i quali collaboravano; in particolare, come ci ricorda Claudia Conforti nel saggio introduttivo alla monografia su ABDR4, Michele Beccu e Filippo Raimondo erano stati vicini a Giangiacomo Dardia e Dario Passi, mentre Laura Arlotti e Paolo Desideri si erano più interessati alle esperienze costruttive degli “office” di allora, frequentando direttamente lo studio Nervi e Sergio Musmeci.
Seppure tutti e quattro avessero subito le oscillazioni di questo turbolento fine secolo, nel momento in cui si sono trovati insieme hanno saputo ricomporle in un processo di ricerca progettuale sufficientemente lineare. Guardando all’Opera di Firenze come testimonianza emergente ed attuale è possibile ritrovare l’attenzione alla città nel misurato rapporto con le Cascine e il minimalismo razionale nella semplificazione volumetrica che aderisce e si differenzia nelle singole parti funzionali del complesso; questioni che ci riportano agli anni della loro formazione come docenti. Al tempo stesso la morfologia irregolare della parte urbana nella quale l’Opera si inserisce, si rispecchia nella geometria euclidea dissestata dei parallelepipedi che si incastrano e sovrappongono e dalle inattese trasparenze che dissolvono i volumi; soluzioni che rimandano alle ricerche progettuali nell’ambito della scuola pescarese. Come in altre opere di Desideri & C., nel teatro di Firenze, la composizione procede per parti concluse, la monumentalità non eccede misure conformi e confrontabili, il vuoto del giardino è accolto nella composizione diventando il medium di una visione a distanza che accoglie il visitatore e lentamente, sino all’ingresso in sala o alla ascensione verso il teatro all’aperto lo trasforma in spettatore. L’Opera di Firenze non è uno di quei mostri metropolitani di cui parlava il caro amico Tonino Terranova, ma il risultato di un lungo e paziente lavoro di ricerca progettuale in cui la forma, come dice Desideri, ha ottenuto un miracoloso equilibrio assumendo anche un ruolo “etico”.

Note

1. D. Costi, ABDR, temi, opere e progetti, Electa, Milano 2015, p. 27.
2. P. Desideri, Città di latta, Booklet, Milano 2002.
3. Negli anni Settanta si discusse a lungo sulla dimensione delle nuove conurbazioni metropolitane. Già dieci anni prima Kenzo Tange aveva progettato una gigantesca espansione di Tokyo nella sua baia, mentre Yona Friedman aveva teorizzato megastrutture modulari sospese sulle città esistenti. A Roma Ludovico Quaroni faceva lavorare i suoi studenti sul tema della città/regione lineare, e nello studio Asse (insieme a Bruno Zevi, Mario Fiorentino, Riccardo Morandi, Lucio e Vincenzo Passarelli, Vincio Delleani) progettava il futuro asse attrezzato previsto nel PRG di Roma. Nella ricerca architettonica si teorizzava la grande dimensione dei complessi di case popolari. Furono realizzati, tra gli altri, a Roma Corviale, a Napoli Le Vele di Scampia, a Trieste il quartiere Rozzol Melara.
4 C. Conforti, in D. Costi, ABDR..., cit., pp. 7-13.

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