10 domande a Paolo Desideri

Anna Rita Emili
Ludovico Romagni

La seguente intervista si è svolta presso il Nuovo Parco della Musica e della Cultura di Firenze

Anna Rita Emili Siamo con Paolo Desideri architetto italiano di fama internazionale e ci troviamo all’interno di una delle sue opere recenti, il Nuovo Parco della Musica e della Cultura di Firenze, inaugurato nel 2011. Paolo Desideri ci racconti la storia di questo progetto e come si inserisce all’interno della tua ricerca?

Paolo Desideri Cominciamo dalla storia di questo progetto che è una storia ricca, non so se complicata, anche complicata. Noi abbiamo fatto il progetto per la partecipazione all’appalto integrato, all'appalto concorso, insieme alla società SAC, Società Appalti e Costruzioni di Roma (che poi ha costruito il teatro) intorno alla fine del 2007. La bella notizia che avevamo vinto è del Gennaio 2008, proprio nel periodo in cui io, disperando di non poter vincere, me ne ero andato in Mali a meditare. Invece è arrivata la telefonata, avevamo vinto ed è stata una grande emozione, veramente grande. Dopodiché abbiamo sviluppato la progettazione definitiva ed esecutiva entro il 2010; quasi due anni per realizzare il progetto esecutivo e nel 2010 si sono aperti i cantieri; l’opera così come sostanzialmente la vedete è stata terminata nel Dicembre 2011; come si dice in termini imprenditoriali un lavorato di circa 200 milioni di euro in 22 mesi, insomma una cosa molto seria. Qui, più ancora che nelle altre grandi opere che abbiamo avuto la fortuna, l’onore e anche un po’ il merito di aver realizzato, la questione tempi è stata esaltante e problematica. Per rispettare la tempistica (questa era una delle opere per le celebrazioni dei 150 anni dall’unità d’Italia e quindi doveva essere pronta entro Dicembre 2011), l’impresa ha lavorato 24 ore al giorno alternando tre squadre di operai e, come sempre dico senza retorica, seguire un cantiere aperto h 24 vuole dire che anche tu devi stare aperto h 24, perché il cantiere, contrariamente a quello che possono pensare i nostri studenti, è un posto straordinario che pone continuamente domande al progettista e al direttore dei lavori. O tu sei in grado di dare in tempo reale le risposte oppure qualcuno dà risposte al posto tuo; qui c’erano 200 persone che lavoravano e io, letteralmente, sono stato svegliato di notte almeno un paio di volte. In studio c’era sempre qualcuno pronto a dare risposte prima dell’alba perché qui non è che aspettavano. E' stata una vita insieme al cantiere, come dire, faticosa ma esaltante. L’altro tema da sottolineare subito è la complessità a tutti livelli: è una complessità che viene fuori dall’intreccio dei vari livelli problematici dell’opera, dalla scala urbanistica fino alla scala costruttiva del dettaglio, fino a quella acustica in modo particolare.

Ludovico Romagni E’ un punto particolare della città, un nodo cruciale tra la città dei pieni, la città storica, e la città aperta del parco delle Cascine. Quali sono state le scelte del progetto dal punto di vista delle relazioni urbane?

Paolo Desideri Partiamo dalla scala urbanistica: qui c’era da tempo la previsione di realizzazione di un polo sostitutivo del vecchio teatro del Maggio Musicale Fiorentino; come sempre più spesso avviene, i procedimenti urbanistici sono procedimenti che soltanto quando arrivano a confrontarsi con il progetto d’architettura trovano la condizione ultima e necessaria per dover risolvere alcuni problemi che non hanno mai risolto o affrontato. In particolare in quest’area c’era un problema molto serio legato all’accessibilità rispetto ad un quartiere che è molto particolare, molto problematico e molto frammentato. Sostanzialmente è un’area di interfaccia tra il centro storico della città di Firenze, come metafora dico sempre la città di pietra, la città delle pietre medicee, e l’inizio della grande realtà territoriale costituita dal Parco delle Cascine che inizia qui e prosegue fuori Firenze. Questo è stato il primo tema da affrontare, il tema della scala urbana, nemmeno urbanistica ma urbana; bisognava cercare di dare senso a un progetto che evidentemente aveva un doppio obiettivo: da un lato appartenere, risolvere, chiudere il confronto con la città storica, dall’altro essere anche un pezzo del Parco delle Cascine, un pezzo di landscape design, una specie di architettura del paesaggio. Ci siamo sforzati di lavorare in questa direzione; l’edificio, come si apprezza dall’esterno, è una specie di “non edificio”, una sequenza di piani, terrazze, piazze, piani inclinati, rampe che affacciano l’uno sull’altra a costruire letteralmente un paesaggio artificiale al di sopra del quale si cammina come se tutti i tetti fossero utilizzabili, fino ad arrivare sulla copertura di questa sala dove c’è la grande cavea inclinata da cui si scopre il paesaggio sorprendente del centro storico di Firenze da una posizione eccentrica, fuori dal centro, fuori da quella che è normalmente la veduta dall’alto di Firenze. Qui siamo non sulle colline da cui normalmente si gode la vista del centro storico di Firenze ma siamo dentro il centro storico. Poi c’era una complessità di carattere funzionale; solo progettandolo ho scoperto che la sala, normalmente rappresentata nell’immaginario collettivo dall’auditorium, è soltanto la gemma che sta all’interno di un sistema di funzionalità pazzesco. Un teatro dell’opera, perché questo è un teatro dell’opera, oltre ad un ulteriore auditorium che porteremo presto a completamento e alla cavea, è un vero e proprio luogo produttivo; c’è un backstage con le attività produttive, un costante laboratorio di legname, un laboratorio metalli, un laboratorio tessuti, un laboratorio sartoria, sale prova, balletto, ecc. E' un organismo complesso che ha le sue regole e le sue leggi, deve avere i suoi accessi differenti, specifici, diversi da quelli per chi la sera accede per poche ore in smoking. E’ una realtà produttiva molto complessa, una comunità che vive; questo è stato un altro elemento di complessità. Naturalmente c’è stata poi la complessità legata agli aspetti costruttivi; cito prima quelli "facili”, quelli strutturali: stiamo sul tema delle strutture a grandi luci essendo questo un teatro, ma poi, anche e prevalentemente, gli aspetti costruttivi legati al carattere acustico.

Ludovico Romagni Appunto, entriamo nel vivo della questione acustica. Come si costruisce una cassa armonica, un grande liuto, un liuto perfetto? Immagino l’attesa, il timore per il giudizio sulla qualità acustica della sala, la collaborazione e il giudizio di Zubin Mehta, il parere del competente Maggio Fiorentino. Le linee di pensiero sono due, da un lato la ricerca di orientare il suono con dei pannelli, delle ali direzionali, come in qualche modo avviene nell’auditorium di Roma ed anche qui nella sala prove, dall’altro, invece, è la forma dello spazio che accompagna lo sviluppo della musica insieme all’uso di materiali che rendono le pareti più o meno permeabili al suono.

Paolo Desideri Partirei da questa seconda considerazione perché in realtà io la leggo come prevalente. Noi fin dalla fase di concorso, poi naturalmente la cosa è stata molto molto perfezionata nei mesi della progettazione definitiva ed esecutiva, abbiamo avuto l’opportunità di lavorare con la persona che ha seguito tutti gli aspetti d’ingegneria acustica, Jurghen Reinhold, che voglio ricordare è l’ingegnere acustico della Muller-BBM e che ha seguito anche Renzo Piano nell’auditorium di Roma. Con Jurghen da subito abbiamo adottato una strategia che vorrei dire è un po' l’opposto, il ribaltato, rispetto alla strategia che è stata adottata nell’auditorium di Roma. Quando abbiamo iniziato la progettazione, la prima domanda che ho posto a Reynhold è stata: ma il rapporto con l’ingegneria acustica come ce lo vogliamo giocare? Come ci regoliamo? Lui inizialmente ha risposto dicendo che normalmente con gli architetti va così: tu fai il tuo progetto secondo la tua scienza e la tua coscienza, poi me lo metti in mano e io correggo i tuoi errori. In realtà questa correzione degli errori, dal punto di vista acustico, sarà foriera di tante altre buone opportunità; pensa per esempio che questa correzione acustica a Roma è rappresentata dai grandi pannelli che si vedono sul soffitto. Da subito gli dissi che questa era una strada che non mi apparteneva; io avrei voluto seguire la scommessa di lavorare come se dovessimo costruire un grande strumento musicale, facendo in modo che dovesse essere la forma ad ottimizzare la risposta acustica, insomma, come se fosse un grande violino. La forma del violino è quella che nel tempo, lentamente, si è evoluta come optimum relativamente alla ottimizzazione della risposta acustica e naturalmente alla funzionalità specifica per chi lo suona. Lui si è messo un po' a ridere e ha detto: ovviamente mi inviti a nozze, però la cosa è un po’ più complicata di come la stai dicendo perché la forma di uno strumento non musicale ma architettonico deve tener conto di ulteriori problemi; dalla struttura, al fire engineering, alla curva di visibilità, alla funzionalità di sala, agli accessi e a molto altro ancora. Inoltre bisogna fare attenzione perché non stiamo parlando di un violino, che ha una gamma tonale molto limitata, ma di una sala che ha una gamma tonale sconfinata, dentro la quale con lo stesso strumento, cioè la forma, dobbiamo riuscire a risolvere tutti i problemi. Il risultato è quello che in realtà stiamo vedendo, è un risultato che naturalmente è frutto non di un tasto di computer che spingi; in altre parole non è un risultato univoco, è un risultato al quale il progetto ABDR, insieme all’integrazione dell’ingegneria acustica della Muller è pervenuto adottando una strategia in base alla quale è la forma che risolve il problema acustico, non i pannelli. Qualcun altro sarebbe pervenuto ad altre forme intendo dire, questa non è l’unica forma possibile. Fatemi fare subito delle considerazioni riguardo alla forma finale: la prima è di carattere storico; è un ferro di cavallo quindi una figura in qualche modo sorprendentemente vicina alla tradizione lirica italiana, al teatro lirico italiano che, evidentemente e per tradizione, conosceva quanto queste forme fossero vicine all’ottimizzazione. Questa è una forma fortemente ottimizzata e questa ottimizzazione la percepite guardandovi intorno, non c’è un pannello di correzione, è la forma di per se che assicura le condizioni di questa risposta acustica. C’è stato poi il rapporto esaltante con Zubin Mehta, anche se in alcuni momenti problematico; Mehta è un conductor in tutti i sensi, non solo voleva dire la sua, ma non ha mai esitato ad esprimere le sue perplessità, i suoi timori, la sue ansie, le sue preoccupazioni rispetto a questo teatro che è sempre stato considerato un po’ il figlio della sua programmazione complessiva sulla vicenda di Firenze. In particolare con Metha vale il tema della particolarità dei palchi e della galleria che, come avrete visto, sono ricavati in scavo rispetto al piano di legno che li contiene. Questa soluzione viene fuori da una scommessa con il grande direttore che come battuta iniziale ci chiese: vedete se riuscite a farmi una galleria e dei palchi che non abbiano i parapetti perché, a torto o a ragione, noi musicisti siamo sempre convinti che i parapetti verticali, di qualsiasi materiale siano, compreso il legno, possano costituire elementi di rifrazione acustica. Quindi la risposta è stata un po' questa, in realtà non abbiamo fatto mai i parapetti verticali ma abbiamo lavorato col cucchiaio, levando materia, “scucchiaiando”, come dicevamo noi, rispetto a questo piano; ne viene fuori che la galleria e tutti i palchi sono inseriti all’interno di scodelle di materia tolta. C’è questa immagine continua, questo piano che scende e restituisce in sommità proprio lo spessore della cassa armonica complessiva rivestita di questo materiale molto particolare. Proprio rispetto al tema acustico abbiamo dovuto affrontare la questione specifica legata ai materiali; su tutti cito il legno di pero che è un legno molto particolare per le sue caratteristiche strumentali, come un vero strumento musicale. Ma a parte questo, la cosa più sorprendente, quella alla quale sono più affezionato è stata l’invenzione del materiale di finitura che avvolge tutta questa superficie che ho definito come la cassa acustica dell’auditorium; si tratta di una superficie che non è liscia ma è rigata, inizia verticale e finisce a 45 gradi; in fondo il problema di questa superficie era che doveva essere completamente trasparente, permeabile al suono; immaginate una spugnetta nera come quella che c’è quando togli la “garzina” delle casse acustiche dello stereo, cioè un materiale a forte fono-assorbenza. Per fare questo il materiale doveva essere attraversato due volte dal volume sonoro e doveva avere una trasparenza acustica attorno all’80%; quindi abbiamo deciso di andare subito in una direzione, quella dell’utilizzazione di un tessile: immaginate delle tende appese, immaginate la cotta, la maglia di un guerriero medioevale, una maglina di filo metallico tessuto e poi cucita a mano con un’apposita macchinetta telo per telo; inoltre, il vantaggio di essere appesa vuol dire che non ha montanti, perché i montanti sarebbero stati opachi a questa trasparenza necessaria. Un altro elemento caratteristico è il fatto che sia illuminata in modo radente restituendo questa immagine di grande lampada di sala. Questi sono tutti materiali a forte caratteristica di trasferimento tecnologico, esistono cioè nella natura produttiva, esistono in natura, però normalmente sono utilizzati per tutt’altre funzioni. Pensate che questo è un materiale prodotto per garantire l’aderenza tra il linoleum che scorre nei nastri trasportatori e l’aggancio con gli ingranaggi; è un ferro dolce lasciato arrugginire leggermente al quale abbiamo dato un primer per bloccare l’arrugginimento. E’ evidente che trasformare un materiale che normalmente sta sotto i piedi nell’elemento caratteristico di questa sala è stato il risultato di prove, test, certificazioni; sono elementi complessi che riportano immediatamente a un altro tema molto importante che è quello della capacità costruttiva che c'è dietro questa roba, ed è tutto merito dell’impresa.

Anna Rita Emili Ora vorremo orientare l’intervista su un aspetto più teorico, perché lo scopo di questi colloqui è proprio quello di creare un confronto diretto tra la teoria e il pensiero critico che caratterizzano un architetto e un suo progetto realizzato. Come potresti inserire questo progetto all’interno della tua ricerca attuale e come si è sviluppata nel corso degli anni?

Paolo Desideri Esiste una storia della ricerca personale? Non lo so. Mi sono occupato con passione di molte cose diverse; c’è stata una stagione nella quale mi sono concentrato sui temi delle nuove forme metropolitane, in particolare sulle condizioni diffusive della città, tema che peraltro adesso in qualche modo è riemerso in questa avventura che da tre anni ho intrapreso come coordinatore del dottorato di ricerca “Paesaggi della Metropoli Contemporanea” a Roma Tre. Poi però c’è stata una stagione, che dura oramai da una quindicina di anni e perdura tuttora, in cui l’interesse si è concentrato sul tema della complessità, sui rapporti tra forma e complessità; da questo punto di vista mi sentirei di incentrare un po' di riflessione teorica riferita a quest’opera, così come anche alle altre grandi opere che abbiamo realizzato, ma a questa in modo speciale perché qui, più che altrove, emerge in maniera assolutamente determinante il ruolo che può, e fatemi aggiungere, che deve avere la forma nella governance dei sistemi complessi. Complessità è un termine molto ambiguo che in architettura normalmente viene utilizzato per indicare qualcosa di “strano”; al contrario io credo che un sistema complesso non necessariamente, anzi aggiungo di più, quasi mai, necessita di una forma complessa; lavorare con la complessità non vuol dire non pervenire a forme semplici, certamente non forme precostituite, non forme pre-tipizzate. Insomma io non credo che il tema della complessità sia riducibile a una questione di carattere linguistico; ecco sono complessi i progetti di Zaha Hadid, sono complessi i progetti di Gehry, di Libeskind perché sono forme complesse. Sgombrato il campo da questo primo equivoco proviamo invece a ragionare su cos’è, a mio modo di vedere, la condizione che caratterizza, che lega, che definisce in maniera inesorabile, indiscutibile, un sistema complesso a un progetto complesso. Voglio fare ancora un’altra premessa: badate, parlare di progetti complessi o progetti semplici non vuol dire fare una serie A o B dell’architettura. Il mio amore per gli studi sullo sprawl urbano, sulla città diffusa, stanno a testimoniare un amore nei confronti dei progetti semplici, addirittura banali; la sfida del banale è altrettanto enorme quanto la sfida del complesso. Detto questo però, credo che dobbiamo avere la lucidità di individuare quali sono i progetti complessi e quali sono i progetti semplici, banali, perché io credo che le strategie con cui possiamo affrontare il progetto sono radicalmente diverse a seconda dei casi. Dunque propongo, per definire complesso un sistema progettuale, di adottare una definizione che viene dalla fisica teorica; la fisica teorica descrive un sistema complesso come quel sistema in cui il numero delle variabili presenti nel sistema stesso supera una soglia oltre la quale si determinano le condizioni di un continuo feedback; in altre parole mentre in un sistema semplice la migliore strategia è quella della obbligatoria ottimizzazione delle poche variabili che si hanno e di conseguenza la forma fa un po’ quello che gli pare, in un sistema complesso, al contrario, questa strategia porterebbe unicamente all’aumento della conflittualità che c’è tra ogni singolo sub insieme di elementi, tra ogni singola variabile di sistema; noi tutti sappiamo che oggi, in un sistema complesso, le variabili sono cresciute a dismisura: l'acustica, i problemi economici, i problemi della cantierizzazione, le strutture, la geologia, la cantierabilità, le condizioni di rapporto con i contesti, i rapporti con la storia iconica collettiva, i temi della bioclimatica, della distribuzione e potrei continuare. Il problema è che ognuna di queste tematiche, se ottimizzate, produce conflitto nei confronti della tematica che gli sta accanto. In questi casi io credo che siano la forma e la creatività ad assumere un ruolo decisivo. Noi come architetti dobbiamo sempre di più affermare che non è la tecnologia, non è l’ingegneria a risolvere questi problemi; per risolvere questi problemi esiste solo una chiave che è la forma, la capacità della forma di costruire le condizioni di questi miracolosi equilibri tra istanze tra di loro conflittuali. Ma questo vuol dire utilizzare la forma e tutta la creatività nella direzione del “problem solving”; al contrario io vedo che nell'architettura contemporanea la forma e la creatività sono utilizzate nella stragrande maggioranza dei casi per fare “problem adding”, per aumentare i problemi. Il punto è che nei sistemi complessi la creatività e la forma assumono un ruolo “epico” perché hanno una responsabilità nei confronti del sistema complesso. In direzione opposta, il rischio è quello di agire in modo autoreferenziale; chiesi una volta a Zaha Hadid perché avesse fatto questa meravigliosa liquirizia al di sopra dei binari dell’alta velocità di Napoli-Afragola e lei in sostanza rispose: “Paolo fatti i fatti tuoi, riguarda i rapporti che io ho con Dio”; l'autoreferenzialità credo in questi casi debba essere bandita. Dobbiamo capire che è questa creatività che noi possiamo utilizzare per risolvere i problemi; in questo teatro io credo che ce l'abbiamo messa tutta; se ci siamo riusciti non so dirlo perché non è un fatto solo funzionale ma molto più. La creatività ovviamente non c’è solo nella fase iniziale del progetto ma è in questo processo continuo che deve venir fuori continuamente per la risoluzione dei problemi. E’ questo l'aspetto epico.

Ludovico Romagni Collegandomi a quello che stavi dicendo, questo è frutto di un percorso; da tuo ex studente ricordo che ci abituasti a questa complessità linguistica, al “dramma” di concepire progetti caratterizzati da decine di giaciture da far coesistere. Oggi in effetti nella tua architettura non si rilegge questa passione per il complesso a tutti i costi, i tuoi progetti lavorano su elementi semplici: il gesto unico della grande copertura della Tiburtina cosi come la scatola che si incassa nel terreno e dialoga con la torre scenica qui nel teatro di Firenze.

Paolo Desideri Io credo che ci sia una differenza, uno iato davvero incolmabile tra ciò che puoi simulare a scuola e quello che poi ti trovi a poter esercitare nella realtà quando hai il privilegio di poterlo fare su progetti realmente complessi come questi di cui stiamo parlando. E' molto difficile a scuola dare una simulazione della complessità cosi come ho provato a descriverla fino ad ora; pensiamo ad esempio alla questione dei costi che viene immediatamente trasformata nella vulgata dell'imparare a fare i computi metrici estimativi; soltanto in Italia noi continuiamo a chiamare computi i computi quando nel resto del mondo il computista si chiama cost controller e quanty surveyor, ed è una persona che, come avviene in tutti questi nostri grandi progetti, sta al tavolo dalle progettazione fino dal primo giorno. Allora, come dire, il punto vero è proprio questo, noi dobbiamo riuscire a sviluppare la capacità nei nostri studenti e in noi stessi di essere al tempo stesso grandi virtuosi dello strumento che suoniamo, il disegno, ma anche grandi direttori d'orchestra. Questa similitudine non l’ho certo inventata io; la metafora dell'architetto come direttore d'orchestra la fa Koolhaas, io la riprendo e trovo che sia giustissima. E' rispetto a questo universo di variabili contrastanti e conflittuali che il direttore d'orchestra può decidere quali gruppi di strumenti portare al minimo, quali fare saltare. In questa condizione, la capacità di decidere cosa abbassare e cosa esaltare la riesci ad avere solo quando stai nella realtà delle cose, confrontandoti con essa; a scuola quello che puoi cercare di insegnare è il lavorare come un giocoliere, con tutte le giaciture, con una complessità che è data dal racconto geometrico, dalla capacità di riuscire a incastrare le cose del disegno. Bisogna imparare ad essere un po’ giocolieri ma senza affezionarsi a quelle forme specifiche, accettando l'idea che nei progetti complessi le questioni sono ben altre. Non possiamo pensare che la complessità è racchiusa solo nel gioco complesso delle forme, è una cosa molto difficile da far capire anche alla gente che ci sta a guardare. Vi racconto un episodio con Claudio Abbado che è avvenuto durante uno degli ultimi concerti che ha diretto in questo teatro. Mentre faceva le prove gli fui introdotto come l'architetto progettista e lui mi ringraziò facendomi i complimenti; subito dopo mi disse di avere un problema con gli archi che erano troppo forti e mi chiese di alzare assolutamente la pedana provvisoria di circa 15 centimetri. Gli risposi ok, adesso sentiamo i carpentieri e gli altri operai; la cosa fu bellissima perché ebbi l’impressione che nel sentore della gente l'architetto è immaginato come il capo che governa i tecnici, archeo-teknos, che risolve i problemi concreti di luce, di audio, di movimenti, ecc. Come tutto questo determini una complessità lo sappiamo solo noi, ma rappresentarlo attraverso l'esibizione continua di forme complesse io credo che rischi di essere addirittura un po' pornografico.

Ludovico Romagni Sempre per tornare un pò alle radici. Ero anch'io lì nella stagione delle grandi conferenze pescaresi: Miralles, Eisenman, Peichl, Coop Himmelblau, Sawade, Podrecca, Bohigas, Koohlaas, Krier, Chemetov, Hadid, per affermare con forza i nuovi temi della città oltre la modernità. Quali sono stati i tuoi riferimenti culturali iniziali e quanto “la città di latta” ha influenzato la tua architettura recente?

Paolo Desideri Devo dire ciò che ti aspetti che io dica o la realtà? Nel senso che la domanda è pertinentissima ma, di nuovo, il rischio è quello di deludere la tua memoria di ex studente perché poi quello che uno si porta dentro come formazione biografica non sempre, quasi mai in realtà, lo racconta agli studenti. Dunque per quello che riguarda la mia formazione devo citare poche persone e molto poco coerenti fra loro; il mio primo riferimento è la stagione dei grandi office di architettura italiani degli anni '50-'60 dove ho avuto il privilegio di entrare e di uscire letteralmente dalla porta, ed era la porta prestigiosa dello studio Nervi, essendo papà partner dello studio e poi, dopo la morte di Pierluigi presidente della Nervi Spa. Quindi il confronto con la stagione dei Nervi, dei Morandi, dei Musmeci, dei Moretti. Segnalo che parliamo di una stagione nella quale c'è un grande rimando ai temi della complessità; per la prima volta c'è stato un confronto concreto con un modo di riorganizzare la professione che non era più quella dell'artigiano virtuoso ma diveniva quella dell'integrazione delle competenze all'interno di grandi office, e in questo gli italiani la facevano da padroni alla pari con office esteri come quelli di Saarinen, di Arup, di SOM. Ecco quella stagione è stata per me una stagione estremamente formativa; evidentemente non nella direzione della progettazione strutturale ma nel sentire e nell'assaggiare questa continua integrazione tra le diverse forme di sapere specialistico. Come architetture e come altri personaggi di riferimento debbo citarti, anche qui un ingegnere, un progettista, Sergio Musmeci, il quale è anche stato il mio padrino di battesimo. Quando avevo quindici anni, Sergio progettava il ponte sul Basento; beh, credo che la sua sia una delle più straordinarie ricerche nella direzione delle capacità della forma di risolvere i problemi che si pone la progettazione. Sergio indagava nello specifico quali fossero le forme che garantissero le condizioni del minimo strutturale, cioè della minima quantità di materia impiegabile, per assicurare resistenza rispetto ai carichi; la domanda era: che forma deve assumere il pilone per impiegare meno materia possibile? Oggi una ricerca teorica del genere non si farebbe più perché il problema con cui dobbiamo confrontarci non il risparmio del materiale quanto piuttosto il risparmio sui costi di produzione. All'epoca però era una ricerca straordinaria; non c'erano i computer e Musmeci metteva noi ragazzini su un attrezzo che aveva inventato utilizzando un tubo da disegno con sopra una gomma ritagliata dal copertone di un camion su cui appendeva dei carichi dicendoci di togliere con le forbici la materia che non era necessaria. Tutto questo facendo attenzione a non intercettare le linee di forza altrimenti si sarebbe squarciato tutto; un esperimento ripetuto mille volte fino a quando la forma era quella che più o meno ottieni dal procedimento inverso cioè su carico invece che su tensione. Il corso di Sergio Musmeci negli anni '70 di “ponti e grandi strutture” in facoltà era frequentato da otto, nove persone ma credo sia stato uno dei più formativi. Infine devo citare, anche perché è giusto ricordare quanto importante sia stato per la mia formazione, Tonino Terranova che è stato come un fratello maggiore. Non ha mai progettato ma ha sempre riflettuto e speculato con mente molto fine. Io e Tonino abbiamo fatto finta di litigare sempre e costantemente, però ho molta nostalgia del modo in cui ragionava, sapeva impostare le cose.

Anna Rita Emili Volevamo chiudere l’intervista con una delle classiche domande che facciamo agli architetti che incontriamo: che consigli potresti dare alle nuove generazioni di architetti considerando le ricerche in corso che, come dici tu, peccano di un eccesso di complessità formale senza avere un attendibilità e una creatività legata proprio alla realizzabilità dell'opera nel suo complesso.

Paolo Desideri Si, una battuta sui rapporti con l'ingegneria però la voglio fare, poi concludiamo con qualche raccomandazione. Sull'ingegneria vorrei dire che non c’è solo l'ingegneria strutturale; nella stragrande maggioranza dei casi per ingegnere intendiamo lo strutturista ma oggi, ed è un oggi che dura almeno dal dopoguerra, le ingegnerie sono tante e tutte in conflitto tra loro. Volendo fare una battuta, il problema non è mai il conflitto tra l’architetto e l'ingegnere, quando siamo di fronte ad un bravo architetto e ad un bravo ingegnere; il problema vero sta sempre nel conflitto fra ingegnere e ingegnere perché lo strutturista litiga sempre col meccanico che fa l'aria condizionata e non guarda dove sono le strutture, i fili elettrici ecc. Gli specialismi di settore sono cosi; però l'ingegneria ha questa capacità straordinaria di essere depositaria del nostro sapere; c'è una frase bellissima di Gordon Bunshaft che dice: “negli anni '50 oltre che gli edifici stavamo ricostruendo l'America, tutte le mattine aprivamo la nostra giornata con una riunione insieme ai nostri ingegnerei; erano le vestali del nostro sapere, i sacerdoti della nostra conoscenza”. L'ingegneria è questo, è il sacerdozio con la conoscenza, noi non dobbiamo maledire gli ingegneri, noi dobbiamo andarli a cercare sempre di più perché loro hanno la conoscenza; va male quando pretendono di avere la soluzione, la soluzione la dobbiamo trovare insieme, la dobbiamo trovare noi, la soluzione è il problema. Ma non esiste la possibilità di sviluppare un progetto senza la conoscenza. Arriviamo quindi alle raccomandazioni. Io raccomando sempre ai miei studenti di accarezzare i problemi, di coltivarli, di volergli bene; in assenza di amore nei confronti dei problemi esistono solo pupazzi, non ci sono forme. Le forme vengono fuori quando noi risolviamo i problemi che abbiamo di fronte attraverso le forme e la creatività. In assenza di questa voglia di partire dai problemi, di risolvere i problemi, ci sarà sempre qualcuno che ci metterà paletta e secchiello in mano invitandoci a giocare con la sabbia perché qualcun altro risolverà i problemi. Amiamo i problemi e facciamo capire al mondo che siamo i più bravi a risolverli attraverso l'architettura.

 

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