A house is not a home

Paola Gambero

A house is not a home1

Abstract

Nella Brianza la maggior parte delle architetture residenziali unifamiliari riprendono i caratteri della tradizione, tuttalpiù ibridati da alcune innovazioni di natura pressoché funzionale. Esistono tuttavia delle architetture d’autore che denunciano invece una spiccata ricerca architettonica contemporanea, come ad esempio la casa per un regista progettata da Enrico Molteni, insieme alla collaborazione di Andrea Liverani, per la quale è possibile rintracciare immagini e riferimenti nell’opera di alcuni maestri.

In Brianza, most of the single family residential buildings take the characteristics of tradition, at most hybridized by some innovations of analmost functional nature. However, there are some architectures that consider a marked contemporary architectural research, such as the house for a direct or designed by Enrico Molteni, together with the collaboration of Andrea Liverani, for which it is possible to trace images and refereces in the work of some master

Keywords

Casa, autore, immagine, arte, estetica, sequenza, paesaggio

Il paesaggio urbano della Brianza è costituito da generica edilizia, un continuum che da Milano si diffonde sino alle pendici delle Prealpi lecchesi a macchia di leopardo, con maggiore densità in prossimità dei centri urbani per poi tornare più rada lungo le direttrici principali che attraversano vasti campi punteggiati da cascine, testimoni di un mondo rurale oggi praticamente scomparso. Sebbene sia la palazzina, dai due ai quattro piani, a costituire gran parte del tessuto urbano, è fuori dubbio che, nell’immaginario brianzolo, sia invece la villetta unifamiliare la tipologia più adeguata a soddisfare la fantasia di tutti.
Esplosa in concomitanza con il boom economico degli anni Sessanta, questa tipologia residenziale assume inizialmente i caratteri formali, nonché le intenzioni sociali, della Prairie House wrightiana: copertura a basse falde sporgenti, imponenti muri perimetrali in mattone rosso, impianto planimetrico asimmetrico, innalzamento della quota d’ingresso. Gli ambienti interni gravitano attorno ad una stanza, spesso individuata da una doppia altezza, dove trova sede il monumentale camino davanti al quale un idilliaco immaginario domestico vede la famiglia al completo riunita nelle fredde sere d’inverno2. Gli interni si caratterizzano per un uso insistente del parquet, smaltato di scuro, mentre i muri trovano nel chiaro-scuro dell’intonaco rustico, corrugato, la loro massima veemenza espressiva. La struttura portante è in cemento armato e le murature in mattoni, sono talvolta lasciate a vista, talvolta intonacate. Taverna e soffitta diventano corredo imprescindibile della villa unifamiliare, l’una adibita allo stoccaggio di cianfrusaglie, la seconda al gioco dei bambini. Il giardino, recintato da alte siepi, accoglie anzitutto il box auto, mezzo in ogni caso fondamentale per la vita da pendolare. La piscina, sinonimo di benessere, rende la casa un luogo adatto 365 giorni l’anno: casa di vita e casa di vacanza. Al modello wrightiano si aggiunse nel tempo una ibridazione sempre più intensa con le avanzate innovazioni del mercato della domotica e della sostenibilità, con ampie vetrate hollywoodiane e isolamento a cappotto, riproponendo in ultima analisi un’edilizia da catalogo della Mapei.
Molto raramente queste case sono attribuibili alla mano di un architetto. Si possono però rintracciare alcuni esempi tra i cosiddetti “professionisti colti” milanesi che, stufi di operare nelle costrizioni della città consolidata, trovano nella Brianza un terreno fertile per la loro sperimentazione. Tra questi ci sono Vico Magistretti, che si dedicò a tal punto all’argomento da assumere il nominativo di “Palladio in Brianza”3, Asnago e Vender con Casa Conti (1958 – 59) e Villa Vegni (1954) in Barlassina, Ico Parisi, Pietro Lingeri, Franco Albini (il quale trae le sue origini proprio dalla Brianza, presso Robbiate), Cini Boeri ad Alzate Brianza. È tra questi rari esempi che si annovera la casa per un regista a Casatenovo di Enrico Molteni con Andrea Liverani, racchiusa come una matrioska dentro una sequenza di muri, tanto da non essere visibile all’occhio del passante, a meno che questi non si serva di una immagine satellitare. Sarà a quel punto che, curiosando dalla poltrona di casa tra i tetti della Brianza, si intenderanno le ragioni per le quali questa casa ha suscitato tanto interesse nell’ambito della critica architettonica.
Il perimetro del giardino costituisce il limite d’orizzonte cui far riferimento. Gli alberi sono l’unica preesistenza che i committenti hanno deciso di mantenere4 una volta assunta come inevitabile la demolizione della costruzione precedente. La disposizione degli alberi, e la loro irremovibilità, costituiscono di conseguenza la sola ragione davvero determinante per il disegno della pianta5. Si osserva nell’evoluzione di tale disegno la persistenza di uno schema cruciforme: inizialmente irregolare, poi perfettamente ortogonale ed esteso su due livelli per tornare in una fase successiva ancora più irregolare e frastagliato, ed infine assumere la configurazione attuale passando per diversi aggiustamenti conseguenti all’inclinazione dei quattro bracci.
Se è vero che “in architettura non s’inventa nulla”, possiamo a buon diritto confermarlo anche in questo caso. È evidente come le modifiche via via effettuate, a partire dal disegno in pianta fino alla scelta dei materiali, non siano affatto frutto di fantasiose visioni notturne degli autori: ciascuna delle fasi, attraverso le quali il progetto della casa è passato, appartiene sia emotivamente che figurativamente ad un Maestro.
È indubbiamente la Svizzera, luogo dove Molteni stava svolgendo attività didattica in concomitanza con la progettazione della casa, insieme a Liverani, la principale fonte d’ispirazione da cui egli attinge immagini. Non mancano peraltro riferimenti alla cultura portoghese, né tantomeno a quella giapponese.
Inizialmente l’impianto, seppur irregolare, è pur sempre riconducibile ad uno schema quadrato con copertura a quattro falde, cui però sono state tagliate talune parti in maniera apparentemente arbitraria. Altrettanto arbitrario sembra l’impianto planimetrico della casa Meuli di Bearth Deplazes6, cui Molteni ha evidentemente attinto ai fini della determinazione della logica progettuale della sua opera. Nella casa Meuli, le pareti non ortogonali sono di fatto un semplice “offset” della linea di confine, il quale rappresenta un limite invalicabile, così come, nella casa di Casatenovo, lo sono la presenza altrettanto irremovibile, già evidenziata, delle alberature. I patii che si vengono a creare di conseguenza sono quattro piccoli giardini, ciascuno dedicato alla coltivazione di una particolare essenza.
La decisione successiva di sollevare la casa su due livelli, scelta seppur alternativa e inconciliabile con le richieste del committente7, rappresenta dichiaratamente il desiderio di sperimentare una pratica propria dell’architetto svizzero Christian Kerez concentrato sulle variazioni strutturali, come avviene per esempio nella sua casa con un solo muro8 (probabilmente non è casuale che sia la casa di Kerez che la casa per un regista vengano entrambe ritratte dal fotografo Walter Mair). La posizione delle strutture portanti risulta alternata da un piano all’altro. Osservando la sequenza di piante della casa per un regista, questa variazione la si comprende chiaramente: al piano terra la funzione portante è svolta dai muri perimetrali, mentre al primo piano è svolta dai muri di testa.
Abbandonata la versione su due livelli, la sperimentazione si sposta sulla disposizione dei bracci. Laddove il disegno planimetrico trovava ancora una certa rigidità nelle prime fasi, viene adesso esasperato a tal punto da liberarsi quasi completamente da qualsiasi inibizione estetica (tanto da assumere le sembianze di un cane). Casa do Pego9 di Alvaro Siza e House O10 di Sou Fujimoto, sono due esperienze che appartengono indubbiamente al DNA della casa per un regista. La prima fa sfoggio di una estetica un po' sgraziata (di chi però se lo può permettere), la seconda invece, è tanto raffinata quanto essenziale. Entrambe ci ribadiscono come non esistano spazi contenitori di funzioni standard, ma esistono invece spazi che, per ampiezza, orientamento e disposizione, risultano essere più adeguati ad accogliere un uso piuttosto che un altro. La disposizione degli ambienti, e quindi dei modi di vita, è una scelta che viene fatta a priori, nel momento in cui viene stabilito il disegno della pianta.
Accostando tutte queste esperienze si giunge ad una configurazione definitiva, per molti versi forse non la migliore, tuttavia l’ultima. Accettando un’audace sfida ingegneristica, è stato possibile sostenere un ampio spazio centrale totalmente libero da qualsiasi intralcio, un luogo che vorrebbe metaforicamente rimandare al “core” wrightiano, ma che nei fatti costituisce sostanzialmente un punto di vista privilegiato verso il paesaggio circostante, ovvero la casa stessa. Il fotografo Walter Mair ritrae così la casa-narciso: bellissima e vanitosa, in una serie di fotografie longitudinali, dove non sembra esserci separazione tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, tra ciò che è architettura e ciò che è natura, tra progettato e non.
Come può avvenire realmente attraverso la vista dell’uomo, anche la fotocamera -collocata nel centro geometrico di questo spazio centrale, in concomitanza con l’incontro delle falde- ruotando in senso orario di 360 gradi, passa in rassegna tutti e quattro i bracci che costituiscono la casa: ingresso – pausa – stanza – pausa – stanza - pausa – cucina – pausa – di nuovo ingresso. Le pause sono grandi finestre che affacciano sul giardino circostante e ciascuna pausa coglie, nella sua inquadratura, la presenza di qualche elemento della vegetazione: un grosso pino, un piccolo gruppo di betulle, tre abeti ed una magnolia.
La casa, che con le sue dita si è fatta spazio tra gli alberi del giardino, abbracciandoli, estende oltre il proprio sedime la sua presenza. L’ingresso si espande in una piastra di cemento rettangolare, così come la cucina termina nella piscina anch’essa rettangolare
Al suo interno troviamo alcuni oggetti che, scenograficamente, testimoniano una presunta presenza umana (e viene da domandarsi se siano parte integrante del progetto o reali strumenti di vita), di cui un paio di zoccoli rossi posti sulla soglia d’ingresso costituiscono l’emblema. Appena varcata la porta c’è una chaise longue di pelle nera, e c’è un tavolo antico accostato ad una sedia in midollino che diviene luogo di scrittura. Sono presenti due maestosi divani in pelle marrone e due poltrone Wassily che cingono un camino, cuore spento della casa per un regista. Una vetrina contenente imponenti volumi bianchi ed enciclopedie antiche è collocata come terminazione di un tavolo anch’esso bianco, posto rispetto ad essa ortogonalmente e sormontato da una grossa lampada a cupola. Il bagno è completamente colorato di rosso sangue, sia il pavimento che le pareti. La cucina occupa un’intera ala, estendendosi esternamente in un portico, quasi non ci fosse separazione tra i due ambienti.
Talvolta le porte di noce scuro che danno accesso alle ali ospitanti le stanze da letto, prive di infissi, vengono aperte, ed ecco allora comparire una poltrona pavone come sfondo della prima inquadratura ed una lamiera forata da cui filtrano sottili raggi caleidoscopici di luce nella seconda inquadratura
Il volume della casa è totalmente liscio, etereo, scultoreo, continuo. In un certo momento il progetto lo voleva nero, kaaba brianzola, poi si è deciso per un bianco che col tempo sarebbe diventato piuttosto striato dal dilavamento dell’acqua piovana che, vista l’assenza delle gronde, sarebbe caduta sui lati così come la pendenza della copertura avrebbe voluto. Gli altri lati, quelli risparmiati dalla forza di gravità, bianchissimi, ricoperti da una resina lucida. Ancora una volta si coglie in questa scelta la presenza dell’immagine. E se da un lato si ricerca l’evanescenza del volume diafano che è la casa a Leiria dei fratelli Aires Mateus, dall’altro si tenta di “sporcare” tanta perfezione prendendo in prestito dall’artista Remy Zaugg la striatura color ruggine sul muro in cemento armato (assurta a simbolo) del suo studio progettato dagli architetti Herzog e de Meuron nel 1995.
Immagini molto precise, ma talvolta soltanto le atmosfere o i dettagli vengono trasfigurati in questo progetto. Valerio Olgiati è eletto a mentore indiscusso dall’autore. In particolare, per la casa di un regista si prende a modello l’immagine dello spazio interno della casa K + N11. Egli è però anche guida, ferma nel principio di trattare la casa come un oggetto unico, un pezzo unico. Per questo si decide all’interno di stendere un unico pavimento in resina grigia, che uniforma tutto e continua sulle pareti senza alcuna soluzione di continuità, sacco amniotico all’interno del quale gli oggetti d’arredo, scelti con tanta precisione, sembrano fluttuare. L’esterno è integralmente bianco, così come a sua volta bianche erano tutte le case del maestro di Valerio Olgiati, il padre Rudolf Olgiati. Ogni cosa sembra essere indispensabile, è tutto parte del progetto. Altrettanto indispensabili risultano essere i serramenti, appositamente progettati, gli scuri, le porte, tutti quegli elementi che vorrebbero bloccare la continuità dell’”oggetto casa” ma che in questo caso sembrano nascere insieme ad esso ed essere ad esso imprescindibili. È forse proprio questa qualità che distingue un’opera d’architettura da una casa qualunque, la capacità di rendere ogni elemento indispensabile.
Il confine tra architettura e arte è però molto labile, è il filo che dichiara la vita o la morte del funambolo Lepetit. Ce lo insegnò la storia del povero ricco12 il quale, per elevare la sua vita, già piena di denaro e di affetti, chiese ad un architetto di portare l’arte tra le sue mura domestiche. Quando ben l’architetto gliela ebbe portata, il povero ricco si rese conto di non essere mai stato tanto triste, perché escluso dalla vita e dai desideri, dalle scelte più semplici quali il posizionamento di un quadro o di una scatola di fiammiferi all’interno della sua casa.
>Nella casa per un regista, e di sua sorella, non c’è traccia di vita umana. Tutto resta congelato a favore di una estetica che libera l’architettura domestica dalla costrizione dell’abitare.

Immagine: Enrico Molteni, Schizzo, disegno, 2007

Note

1In riferimento all’articolo di Reyner Banham, intitolato “A Home Is Not a House”.
2 “Proprio il camino, del resto, definisce l’axis intorno a cui ruotano – materialmente e simbolicamente – le ville wrightiane”, in M. Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea I, Einaudi, Torino 2008.
3 F. Irace.
4 Risulta evidente dai numerosi schizzi preliminari eseguiti dall’architetto Molteni, dove compaiono gli alberi - disegnati con colori differenti a seconda della propria natura - e il loro sedime. A farsi spazio tra queste macchie di colore c’è il progetto della casa, in continua mutazione.
5 “La manipolazione dello schema avviene modificando le dimensioni delle parti in rapporto alle esigenze funzionali e inclinando i bracci in modo arbitrariamente indotto dalla aleatoria posizione delle alberature. Tale arbitrarietà è uno degli elementi di chiarezza del progetto”, in E. Molteni, Case, in Dario Costi, Critica e Progetto. Architettura italiana contemporanea, Franco Angeli, Milano 2010.
6 House Meuli, Bearth Deplazes, Fläsch, Svizzera 2001.
7 Vedi E. Molteni, Case, cit.
8 One wall house, Christian Kerez, Zurigo, Svizzera 2007.
9 Casa do Pêgo, Álvaro Siza Vieira, Sintra, Portogallo 2008.
10 House O, SouFujimoto, Chiba, Giappone 2007.
11 K+N Residence, Valerio Olgiati, Zurigo, Svizzera 2003 – 2005.
12 A proposito di un povero ricco, in A. Loos, Parole nel vuoto.

Bibliografia

- Biraghi Marco, Storia dell’architettura contemporanea I, Einaudi, Torino 2008.
- Bucci Federico, Casa per un regista, in “Casabella”, n. 813, maggio 2012, pp. 40-51.
- Costi Dario, Critica e Progetto. Architettura italiana contemporanea, Franco Angeli, Milano 2010.

Sitografia

www.enricomolteni.com

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