Utopie Ubique

Massimo Canevacci

Il primo impulso che ho avuto – mentre ascoltavo l’intervista a Toraldo di Francia realizzata da Anna Rita Emili e Ludovico Romagni – è stato di riprendere un bel libro di Richard Sennett, uscito nel 2009, The Craftsman. La mia competenza nelle scienze umane in generale, oltre l’antropologia culturale e urbana, in particolare mi permette di suggerire questo testo, in quanto potrebbe favorire un mutamento di pensiero e, quindi, anche ideativo o progettuale rispetto a quanto ascoltato. La figura dell’artefice, infatti, è analizzata storicamente a partire proprio dalla città di Firenze, in quanto coniugava un transito e un mix tra l’essere artigiano e artista basato su alcuni fattori ben noti: la bottega era il centro, il laboratorio sia della vita familiare che produttiva e anche formativa in cui il maestro esercitava il mestiere. Molti giovani, che diventeranno artisti supremi, si formarono appunto nella bottega, dove la concretezza del fare si apprendeva processualmente, osservando e seguendo il maestro: l’artefice. Questo modello-bottega, che ho riassunto per motivi di spazio, Sennett lo riprende come il centro dei possibili mutamenti creativi nell’epoca della cultura digitale. Invece di riprodurre banali condanne conservatrici sulla presunta “superficie” del cellulare, il sociologo vede la prospettiva di contaminare: questa parola chiave della contemporaneità significa mettere insieme elementi incompatibili per individuare possibilità altre, non prevedibili dalla purezza “autentica” del pensiero astratto. E l’intreccio è previsto proprio verso una bottega digitale, dove le grandi possibilità creative che offrono le tecnologie – e sempre gli architetti hanno usato le tecnologie dei loro tempi storici – permettono l’affermazione di un saper fare che non si basa sulla riproduzione dell’identico, bensì – mi dispiace per la parola – sull’innovazione perturbativa di codici e simboli. L’innovazione non è un mito, anzi, l’intera caratteristica della cultura occidentale si basa sulla continua ricerca di immaginare quello che non esiste ma che è latente. Il non-essere ancora è base filosofica e pratica di una certa Europa (Ernst Bloch) che, su questo posso rinviare a un mio precedente scritto sulle Utopie Ubique, costituisce l’essere nella storia per cambiarla - e quindi oltre lo storicismo. Le capacità manuali si affermano e dilatano grazie all’intreccio di design e digitale, questo sostiene Sennett: i nuovi artefici devono avere l’abilità di tali innesti. Perché l’invenzione si forma sulle visioni immaginarie latenti che offrono ai contesti sociali dati la possibilità di oltre-passarli e non di riprodurli. Emerge una pigrizia nel capire l’identità in generale (oltre agli stereotipi sul carattere nazionale) e in particolare l’estrema tensione che è potenzialmente disponibile in molte università italiane e ancor più nei suoi studenti. Il mutamento in atto verso l’identità ubiqua precisa intendere proprio il concetto centrale di ubiquità. Su questo posso di nuovo rinviare a cose mie scritte (e mi scuso), ma certamente il soggetto ubiquo inserito nei flussi della comunicazione digitale sperimenta nella vita quotidiana identità fluttuanti, spesso problematiche e persino regressive e autoritarie, quanto anche potenzialmente creative.Ubiquity, specie in inglese ahimé, è parola chiave e basta cliccare su questo concetto per aprirsi ai profondi mutamenti che sta vivendo grazie alle pressioni/pulsioni del digitale (e poi è figlio della simultaneità, concetto decisivo dei futuristi che sentivano il pulsare che sale dalla metropoli innovativa). Forse è possibile assumere un metodo etnografico, che non appartiene più alla sola antropologia, bensì a chiunque ricercatore “indisciplinato” che voglia fare ricerca empirica sul campo orientata teoricamente e disponibile al cambiamento di paradigmi. Questo a me pare evidente. Non è possibile continuare ad applicare i paradigmi industrialisti in un mondo che cambia velocemente. E se la velocità non ci garba si può assumere il motto che sta al centro di Firenze: Festina lente. Di origine romana, i Medici lo misero nel palazzo della Signoria con la celebre immagine della tartaruga con in groppa una vela. Insomma vivere l’ossimoro di sperimentare la curiosità di vivere velocemente lenti o lentamente veloci. La contraddizione va vissuta non censurata o rimossa. E immagino che cambiare posizione corporale/mentale possa essere non solo disturbante quanto anche e soprattutto massima espressione di felicità. Felicità creativa di non ripetere il passato, o almeno quelle cose passate che ormai sono anime morte alla Gogol. L’architettura non ha perso la battaglia, anzi. Per intromettermi in un campo non del tutto mio, ma leggendo il testo di e su Zaha Hadid curato da Jodidio (2012) emerge con lucida chiarezza quanto il design di Hadid abbia anticipato la rivoluzione digitale e per questo le è stato facile entrare negli “innovativi” modelli produttivi. Non solo. Il concetto di sintomo che l’architetta vede erompere dai tentativi di rendere pura la cultura non solo urbanistica ma in generale metropolitana è fondamentale e del tutto umanista nel senso profondo. L’impuro è scacciato o rimosso dalla cultura egemone che adora purezza-autenticità- origine (ovvero il pensiero ontologico della reazione immaginaria), ma la rimozione si trasforma in sintomo, pustola della pelle o del territorio, persino dello schermo su cui scrivo. Da sintomo della repressione dell’impuro si produce innovazione. O chiamiamola come ci pare. Il non-ancora visto. Ho apprezzato molto il riferimento al cinema e al foto-montaggio: questa éra del grande cinema, del cut-up o collage è finita o almeno non è unica da quando si è affermato il morphing, che innesta i pixel uno dentro l’altro producendo appunto il non-visto. Se il rapporto società-città- fabbrica è fortunatamente finito, si tratta di osservare e fare ricerca sulla metropoli comunicazionale che emerge e che dissolve, di nuovo, tutto quello che è solido.

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