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10 domande a Cristiano Toraldo di Francia

Anna Rita Emili
Ludovico Romagni

La seguente intervista si è svolta presso la Scuola di Architettura e Design "Eduardo Vittoria" di Ascoli Piceno

Anna Rita Emili Innanzitutto è inutile ribadire che la tua esperienza, personale e di gruppo, all'interno delle Neoavanguardie è stata preziosa e fondamentale per l'architettura italiana e internazionale. La prova ci viene offerta dai numerosi progetti e ricerche che prendono spunto dai tuoi/vostri lavori. Il giovane dottorando Rem Kollhaas si reca nel vostro studio così come Bernard Tschumi, Zaha Hadid, Daniel Liebeskind. Ma ancora più recentemente anche MVRDV trova nelle vostre ricerche interessanti spunti per i loro lavori. Uno dei temi contrassegnati dalle tue/vostre opere è stato quello legato al tema dell'utopia. Oggi questo argomento è tornato ad essere di gran moda ma i contributi dei “giovani architetti” sembrano essere solo il frutto di riproposizioni di temi e immagini legati agli anni Sessanta Settanta senza avere quel background culturale, politico e teorico che aveva contraddistinto le diverse esperienze degli anni passati. Cosa pensi a tale proposito?

Cristiano Toraldo di Francia E’ curioso che tu abbia menzionato MVRDV. Negli ultimi anni ho fatto diverse conferenze a due nel mondo. A Tokyo, per esempio, Toyo Ito ha mostrato i temi cari a Superstudio sui quali lui ha continuato a lavorare nel corso degli anni. A Rotterdam, ogni capitolo del racconto di Winy Maas, conteneva come introduzione una nostra immagine. Questo fatto dopo quarant’anni è abbastanza impressionante. E’ un equivoco dire che lavoravamo sull’utopia, noi eravamo molto realisti. L’utopia era un commento a posteriori, quello che ci interessava era utilizzare il progetto come strumento critico. Volevamo riportare il progetto al ruolo di strumento, di analisi politica della società a partire dal modello della fabbrica che, attraverso lo zoning e la catena di distribuzione, era divenuto il modello della società e della città, un mondo tutta produzione. Nel 1964, con altri cinque studenti, inaugurando la forma dell’esame di gruppo con più professori e più corsi insieme, presentammo Firenze città estrusa in cui mostravamo la città fabbrica come luogo dell’accumulazione, dell’eccedenza e della produzione. Non era ancora supermercato, ma era legata al modello produttivistico, allo schema nazionale. Il progetto disegnava la realtà spingendola verso il suo estremo, così da renderla più evidente. Il modello successivo, legato all’evoluzione frenetica del concetto di capitale, era quello di una città vista non più come entità contrapposta alla campagna, ma come unico spazio in cui si manifesta una nuova condizione di vita e che assomiglia molto al supermercato, dove lo spazio è continuo, senza fine, non ha un fuori, è tutto interno e non ha quindi architettura. Tutti questi passaggi erano rappresentati con dei progetti.

Ludovico Romagni Comunicare un pensiero libero, non necessariamente reale, una visione destinata a restare tale, ha rappresentato per molti degli architetti più importanti che si sono formati in quella stagione, un percorso parallelo da affiancare alla rappresentazione reale e scientifica del progetto. Quasi sempre queste rappresentazioni hanno manifestato un dissenso, un rifiuto delle cose a cui hanno contrapposto l’utopia come concetto rivoluzionario alternativo. Questa volontà di rappresentare il non reale alimenta la questione della simbiosi tra l’architettura e la sua rappresentazione. A tuo avviso quali sono le qualità del disegno come strumento critico, politico ideale, per manifestare questi aspetti.

Cristiano Toraldo di Francia Voglio fare un passo indietro; perché ho detto che non costruivamo utopie: per essere preciso, intendo dire che partivamo da una critica a tutto campo dell’ultima utopia, quella del Movimento Moderno che aveva concepito l’industria come espediente in grado di risolvere i problemi del mondo attraverso la razionalizzazione degli spazi e la produzione di strumenti definitivi. Tutto questo aveva permesso all’architettura di rinnovare il proprio linguaggio, ma ad un caro prezzo: l’intellettuale, l’architetto, il designer, dovevano dare valore razionale alle necessità produttive. In questo senso abbiamo iniziato ponendoci non come radicals (etichetta che ci viene data successivamente), ma come operatori all’interno del sistema. Questo fatto ci rendeva più architetti degli altri, dei superarchitetti, adoperando il disegno e quindi il progetto come strumento per smascherare le contraddizioni di un modello nel quale eravamo immersi. Il disegno aveva una grande importanza, per noi aveva però bisogno di rinnovamento. Era ancora legato agli schemi del razionalismo, mentre le arti figurative come la pop art e le graphic arts avevano fatto passi da gigante nella rappresentazione del mondo. Era chiaro, quelli che chiamavamo disturbi in architettura in realtà per noi erano momenti di contaminazione importante per il rinnovamento del linguaggio dell’architettura. Si parte dall'innovazione del disegno e quindi nascono una serie di operazioni autogestite che sostituiscono al disegno tecnico un disegno simbolico. Così, come all’equazione la forma segue la funzione, avevamo utilizzato la frase alla forma segue la sua funzione simbolica. La prima parte del nostro lavoro, quella che va sotto il nome di superarchitettura, è un’operazione di contaminazione finalizzata ad allargare il campo della disciplina architettonica alle altre discipline del disegno, fino al fotomontaggio che, di fatto, rappresenta l’inizio dell’accostamento ad un altro sistema di rappresentazione che è quello del film. Il film è uno strumento che abbiamo utilizzato, è uno strumento finale. Oggi se chiedo ad uno studente di disegnare delle tavole o fare un film è certamente più bravo a fare un film. C’è una mancanza di strumentazione del disegno su supporto bidimensionale (ovviamente supportate dal digitale) ma se esci dalle situazioni di elaborazione elettronica siamo tornati indietro di qualche decina di anni.

Ludovico Romagni I confini fra le diverse forme artistiche si sono fatti incerti e l’identità e i compiti dell’architettura si sono confusi. Questo ha determinato uno spostamento verso una nuova disciplina indistinta dell”’estetizzazione diffusa” in cui si è smarrita la necessità e le differenze di ogni forma d’arte. In questa nuova situazione l’architettura riesce ancora a mantenere un ruolo disciplinare?

Cristiano Toraldo di Francia Formidabile domanda. Secondo me l’architettura ha perso la sua battaglia. L’architettura oramai produce oggetti. La battaglia l’ha vinta la merce: l’architettura si vende se c’è un brand dietro, esattamente come se vendi delle scarpe. Vendi lo star system e tutto il resto viene di conseguenza. Si è realizzata forse l’ultima utopia della “supersuperfice” per cui non esiste più una teoria politica dell’architettura come ai nostri tempi, ma esiste una teoria virtuale dell’architettura, tutto è virtuale. La rincorsa all’innovazione, il mito dell’innovazione ora invade qualsiasi campo del progetto ed è l’ennesimo tentativo del capitale di riprodurre se stesso in un mondo che è fatto di nicchie culturali, in cui tutti devono necessariamente innovare. Si proliferano “start up”, “spin off”, luoghi straordinari che servono semplicemente a riprodurre le capacità del capitale ad occupare tutta la nostra vita, non solo come produzione materiale di beni, ma anche come produzione intellettuale. La produzione intellettuale di massa è una cosa reale, in un certo senso l’utopia si è realizzata.

Anna Rita Emili Nel sito del Superstudio c'è un articolo dal titolo L'utopia è morta! Viva l'utopia! Al di là dei contenuti assolutamente chiari ed esaustivi dell'articolo quale è il significato che attribuisci al titolo che appare contraddittorio.

Cristiano Toraldo di Francia Appare contraddittorio però in realtà per noi è morta l’utopia positiva, viva l’utopia negativa. E' morta cioè l’utopia che prefigurava mondi meravigliosi, dove le fontane zampillano e tutti erano felici, mentre rinasceva l’utopia negativa come strumento critico, come costruzione di visioni critiche della realtà. Ci trovavamo in un momento in cui dovevamo distruggere l’utopia del disegno unico, dal cucchiaio alla città, in cui il piano organizza tutto, contiene le architetture e queste, a loro volta, contengono gli oggetti che sono strumenti dell’architettura. In realtà si è visto come tutto questo, non solo si è ribaltato, ma come questi tre momenti si fanno guerra tra di loro: l’urbanistica va per conto suo, l'architettura altrettanto e i prodotti e la merce hanno vinto su tutto. Ormai gli oggetti puoi trovarli sia in campagna che in città, lo stesso prodotto fa parte di questo grande spazio diffuso della merce nella quale il piano fatica molto a raccontare le sue storie e l’architettura si deve adeguare.

Anna Rita Emili Mi piace ancora citare un'altro pensiero: “Occorre che le avanguardie si facciano carico di trasformare ''in bene'' (in possibilità creativa) cio' che fino a ieri era considerato un male, elemento di disturbo. Quali sono secondo te oggi gli elementi di disturbo?

Cristiano Toraldo di Francia Beh, gli elementi di disturbo non sono molto diversi da quelli che trovavamo noi. Il Movimento Moderno aveva cercato una semplificazione del mondo e oggi assistiamo a situazioni spaventose di semplificazione che vanno dal fondamentalismo religioso, piuttosto che il razzismo. Prendiamo per esempio il discorso dell’identità: l’Italia vive del fatto che non ha identità, che è il prodotto di incroci di più culture. Quando si parla di identità del design italiano se ne parla perché non ha identità. Prendiamo il design svedese, è possibile riconoscerlo, i legni sono quelli, così come certe forme. Il design italiano è inclusivo, per cui riesci ad avere la grande invenzione di Castiglioni o il rigorismo politico di Mari e contemporaneamente i colori di Sottsass, il design critico dei Radicali, piuttosto che la ritrasformazione degli utensili della cucina (che derivavano ancora dal razionalismo tipico, che li considerava solo degli oggetti, strumenti per la casa) in nuovi oggetti con un anima vedi Alessi, Giovannoni e così via. Quindi la grande importanza del design italiano è quella di essere strumento critico capace di comprendere la società e di credere che, attraverso il progetto, il design, si possa modificare i comportamenti e non solo fornire strumenti funzionali.

Ludovico Romagni Probabilmente la difficoltà di accettare e metabolizzare il distacco dal concetto “positivista” di crescita, così come l’avvento del digitale, che rende istantanea la “visione” sia di desiderio che di prefigurazione degli scenari futuri, sono alla base della fatica contemporanea a concepire utopia. Forse solo la delimitazione della cittá di Dogma o il “modificare l`immodificabile” di Baglivo e Servino sono tra i pochi tentativi. Eppure i temi su cui sviluppare una visione utopia non mancherebbero: il disastro ambientale, gli alloggi sociali, la costruzione del nuovo esclusivamente come deriva dell’esistente, la cittá digitale (condizione non troppo distante da quella che negli anni ’60 fu l’utopia della “cittá tecnologica”). Cosa ne pensi?

Cristiano Toraldo di Francia Noi abbiamo spazzato via il concetto di utopia: quelle che tu mi dici sono in un certo senso utopie positive finalizzate a migliorare il mondo. Le nostre erano utopie terrificanti, la Non stop city è terrificante, il Monumento continuo è terrificante, le Dodici città ideali sono eterotopie terrificanti. Il concetto di utopia a mio avviso è finito perché te ne puoi creare centomila di visioni attraverso lo strumento del computer o dello smartphone. Forse è una sconfitta dell’architettura. Forse non è più possibile, attraverso l’architettura, cambiare il mondo; ma anche noi, in effetti, non lo abbiamo per niente cambiato, noi abbiamo provato semplicemente a raccontarlo. Non siamo riusciti a cambiarlo non perché siamo passati ad un’architettura radicale, ma perché, in realtà, il nostro sistema era talmente “bravo” che è riuscito a mettere in produzione anche oggetti concettuali che non servivano a nulla come lo Specchio misuratore. Io comunque continuo a dire ai miei studenti che non basta il bel disegno o il bel progetto per riuscire ad essere architetti nel mondo che ci aspetta. Devono essere molto più politicizzati nel momento in cui fanno certe scelte. E’ chiaro che poi queste decisioni puoi tradurle in architettura, però diviene estremamente necessario ritornare alla politica attiva, come lo era ai miei tempi in cui, all’interno delle facoltà, c’erano gruppi politici che oggi non vedo. Si discute sull’estetica, sull’utopia, sul virtuale, ma non esiste una vera discussione politica che possa trasformare le nostre tesi in strumenti di grande confronto.

Ludovico Romagni Quel “terrificante” è anche la caratteristica che distingue i radicali dagli altri utopisti coevi? Il fatto che voi azzeriate completamente l’esistente rispetto alle altre visioni che invece aspirano ad un miglioramento della realtà e si confrontano con ciò che esiste.

Cristiano Toraldo di Francia Si certo, noi partiamo dalla critica agli Archigram, grandi nostri amici, ai quali rimproveravamo la non politica, la convinzione che la tecnica potesse risolvere i problemi del mondo, un pensiero ancora modernista. Yona Friedman con la città nella città, un po’ come il Team X, lavorava sull’idea della griglia indifferenziata, dove la città c’era ancora, però, anche questi erano progetti utopici positivi. Cosa diversa era ad esempio la Non stop city, un progetto realmente terrificante, che voleva ridurre il nostro pianeta ad un unico e immenso spazio interno: una condizione oggi quasi reale. Anche il Monumento continuo era in realtà il tentativo di portare alle estreme conseguenze il pensiero modernista del disegno unico in un’architettura senza città che in fondo oggi è rappresentata dalla “bigness” di Koolhaas: è bella perché è grande, non ha forma, non ha facciata, è un acquedotto che continua, che attraversa tutta la terra, intercettando indifferentemente spazi di tutti i tipi ed è bello solo perché è grande.

Anna Rita Emili Non hai mai smesso di sperimentare e hai sempre ricercato gli elementi innovativi del pensiero e dell’architetttura. Nel 2010 durante la tua lunga esperienza legata all'insegnamento presso la nostra facoltà mi ha colpito il titolo di una lezione all'interno del tuo corso “lezioni di cioccolato”. invitando Fabio Romoli. Nel 2014 mi ha invece incuriosito il titolo del laboratorio “Corso sperimentale di disegno dell'abito” che tra l'altro coinvolge anche un altro tema importante che è quello del riciclo di materiali naturali e non. E possibile inserire queste sperimentazioni all'interno delle nuove utopie?

Cristiano Toraldo di Francia Secondo me oggi è sulla superficie che avvengono le cose. Il disegno dell’abito ad esempio non è altro che un continuare a lavorare sulla “supersuperfice”. Lo smartphone, che una volta era un armadio, sta diventando sempre più una superficie e su questa superficie si realizzano tutte quelle cose che, fino a poco tempo fa, erano raccontate attraverso una specie di grosso giocattolo: l’incontro tra le persone, la comunicazione, la politica della famosa moltitudine, la piazza. C’è questo appiattirsi della realtà sulla superficie. E’ un fenomeno che avviene anche in architettura. Non esiste più la scatola come elemento omogeneo, ma questa è fatta di superfici che si accostano, vuoi che siano pareti interne che si muovono, vuoi che siano pareti esterne composte da diversi pannelli con funzioni differenti, anche estetiche o comunicative. Ecco che il passaggio concettuale dall’architettura all’abito è immediato ma, c’è una differenza: l’abito è morbido. Io credo che il design del futuro dovrà essere sempre più morbido perché l’architettura è uno strumento molto pericolo, specie in una nazione sismica come la nostra. Sto parlando per assurdo, però se riuscissi a raggiungere una situazione come quella dell’aborigeno australiano che, senza vestiti è in grado di viaggiare attraverso il deserto, dove ci sono cinquanta gradi la mattina e venti sottozero di notte, grazie al controllo del proprio metabolismo corporeo realizzato attraverso la modifica del DNA, o attraverso il cervello, o mediante meccanismi ai quali, tra l'altro ci stiamo avvicinando, basta pensare alla ricerca in campo neurologico, forse qualche cosa potrebbe chiamarsi utopia. Quindi l’idea di un vestito concepito come un’architettura portatile che ti permette di essere fuori dalla navicella spaziale in condizioni proibitive, oppure di essere in alcuni luoghi della terra ugualmente difficili, beh insomma, secondo me, in una facoltà di architettura e design deve per forza esserci la preoccupazione di come si costruisca questo vestito. Quattro anni ho deciso di avviare tale sperimentazione all'interno di questa facoltà, visto che nessuno lo aveva fatto prima di me. E' stata un esperimento complicato perchè non so cucire, come del resto tutti i maschietti. L’unica cosa che so fare di più rispetto ai maschietti italiani è lavorare a maglia perché nel 1953, seguendo mio padre negli Stati Uniti, mi sono trovato a frequentare una scuola dove, nell'ora di Tecnica, maschi e femmine lavoravano a maglia. Questo in Italia era impossibile, ma in America le differenze di genere cominciavano già a non esserci. Così ho imparato la tecnica a maglia accanto alle mie compagne. Questo è stato un insegnamento notevole per il futuro della mia coscienza di genere.

Anna Rita Emili I giovani architetti e gli studenti sono affascinati dal significato di utopia forse perchè è un principio indefinibile criptico e rivolto al futuro. Alla luce delle tue esperienze cosa consiglieresti loro?

Cristiano Toraldo di Francia Credo di avere già risposto, politicizzatevi: considerate che il fatto di occupare lo spazio, grande o piccolo che sia con quello che voi costruite, vuol dire immettere all’interno del sistema un prodotto. Questo è un prodotto che genera da una parte povertà dall’altra ricchezza. Ne siete consapevoli? Sapete che come classe intellettuale voi producete modelli per i famosi consumatori da consumare? Che voi quindi producete della povertà creando nuovi modelli che non tutti possono permettersi? Ci sono una serie di considerazioni da fare che sono alla base di una facoltà di architettura soprattutto dove, mi pare di capire, c’è un discreto entusiasmo per la tecnica_tecnica.

La seguente intervista si è svolta nell'aula professori presso la Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno, Università di Camerino, nel mese di Marzo 2015.

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