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Piccolo paesaggio (monumentale) fiorentino

Fabrizio Toppetti
Da quando sono stato invitato a scrivere questo breve testo sul progetto dello studio ABDR per il Parco della Musica di Firenze, torno ciclicamente col pensiero a una fotografia di Nicolò Orsi Battaglini che inquadra il paesaggio storico urbano dal parapetto posto sul fondo della cavea all’aperto collocata sulla copertura del Teatro Lirico. L’immagine è potentissima: in primo piano al centro il vuoto tra le sedute dell’ultima fila delle quali appaiono come sentinelle i blocchi sui lati, il pavimento con le fughe ben delineate, poi il muro la cui generosissima sommità è perpendicolare al volume inclinato che contiene la sala. Questo piano, increspato di una decina di gradi, definisce un primo orizzonte la cui astrattezza tettonica accompagna lo sguardo che scivola naturalmente in profondità, indugiando sullo sky-line della città. Scompare il tessuto urbano, idealmente sintetizzato dalla plastica tridimensionalità della massa muraria, svettano le emergenze che da sole raccontano, con laconica chiarezza, di Firenze e dei suoi fasti. La cupola di Santa Maria del Fiore sulla sinistra insieme al Campanile di Giotto, poi appena decentrato rispetto alla composizione Palazzo Vecchio con la caratteristica torre in facciata, e ancora Boboli a destra. Infine il profilo dolce dei colli toscani.
L’intervallo tra figura e sfondo viene annullato come per incanto. Così come la distanza di spazio e di tempo. E il teatro sulla città, che all’architetto richiama alla memoria lo spazio meraviglioso di Adalberto Libera sopra al Palazzo dei Congressi dell’E42 a Roma, perde la sua dimensione metafisica che pure è ampiamente evocata.
La foto svela l’enigma del progetto. Almeno in parte. I  volumi del complesso, che si distinguono nitidi dal rumore di fondo, vanno a cercare intenzionalmente (sfacciatamente e direttamente) relazioni a distanza con i principali capisaldi urbani con i quali si confrontano da pari a pari. L’effetto di spaesamento che percepiamo inizialmente si deve proprio a questo fatto. La solitudine, la stessa di cui parla per metafora Rafael Moneo1, è il prezzo da pagare per guadagnare un proprio ruolo, affatto ancillare, su una scena urbana affollata da figure di primissimo piano. Eppure, quella solitudine - che racconta non già dell’indifferenza al contesto ma dell’autonomia guadagnata - sancisce il trapasso nella realtà. Certifica il farsi mondo di un’opera che, nella materialità dell’ambiente costruito, s’invera scegliendo la strada - e non poteva essere altrimenti - di una sobria e trattenuta monumentalità contemporanea.
Ma il lavoro è più sottile. Operando nella piena consapevolezza che l’architettura, giusta la definizione di Juan Navarro Baldeweg, è una “sezione fisicamente definita nella trama di fibre che si estendono al di là di essa”2, il progetto, pur interpretando l’esigenza di una forte riconoscibilità iconica, assume i valori della continuità declinandoli sui differenti registri, materiali e immateriali, delle trame, degli spazi e degli usi. Così la pulizia stereometrica delle forme si stempera dando luogo a un ensemble che si diluisce nella ferma intenzione di costruire un ponte, non solo ideale, tra ambiti urbani diversi. In particolare tra il Parco delle Cascine che si distende a nordovest e la città a est. In effetti era questo il primo obiettivo dichiarato: rappresentare e raccontare, senza cedimenti e senza retorica, il passaggio tra il centro storico e la periferia. Ed è forse questa capacità di tenere insieme le maglie della città lasciandosi attraversare percettivamente e fisicamente e allo stesso tempo marcare la propria presenza assertiva, il valore di questo progetto - evidentemente relativo e non assoluto - che vale la pena sottolineare. Insieme alla capacità di parlare (nella terra di Dante) un italiano non ostentato, chiaro e informato, raccogliendo stimoli e sollecitazioni dal mondo.
L’idea prende consistenza da un corposo e articolato basamento esteso per l’intera area che - contrariamente alle aspettative - verso il parco si presenta in tutta la sua massiva durezza piegandosi con decisione a raggiungere la quota urbana sul lato opposto. Il gioco sapiente dei piani e dei volumi àncora saldamente la composizione al suolo predisponendo gli spazi esterni a una permeabilità, accentuata dalle incisioni delle rampe, che di là dai proclami non è mai facile garantire dovendo interpretare programmi funzionali complessi e rigidi com’è in questo caso.  Lo spazio abitabile, compresa la sala da concerto, rimane schiacciato sotto la quota della terrazza superiore dalla quale emergono i volumi del Teatro dell’Opera: la torre scenica, un prisma regolare con base rettangolare allungata interamente ricoperto da un involucro traforato, la scatola ruotata rivestita in kerlite chiara che contiene la sala. Quest’ultima forse l’avrei preferita più pulita, sia sul prospetto principale sia sui fianchi ove le quinte che delimitano la cavea all’aperto sovrastano e ridisegnano il profilo dell’imponente massa inclinata. Ma si tratta di dettagli assolutamente trascurabili.
L’ingresso del teatro si apre verso la città, sullo stacco tra il suolo e il volume sospeso, qui il diaframma della vetrata allude a una sostanziale continuità tra la piazza e il foyer. Ma l’esterno non svela l’interno. Una volta dentro, nello spazio compresso per altezza e profondità, domina la scena il guscio dorato che contiene la sala e attraversa tutta l’altezza. La plastica convessità barocca, prelude alla scoperta di una spazialità avvolgente sorprendente e inattesa, essa riceve la sua fisionomia dal taglio che disegna il solaio fortemente inclinato della balconata ad accompagnare la rotondità della sala. Siamo finalmente nel ventre vibrante di una cassa armonica che pare risuoni alla perfezione. Bella e soprattutto ben congegnata, capace di alludere a una dimensione totale che richiama sperimentazioni di una modernità eroica oramai lontana.
Un’ultima osservazione riguarda la natura dell’impresa condotta con relativa economia di mezzi (il costo a mq è di poco superiore al 50% di quello dell’Opera di Oslo) e soprattutto in tempi brucianti. Che si tratti di un piccolo miracolo è già stato detto da Claudia Conforti in un articolo scritto a caldo su “Casabella”3 dal quale emerge con chiarezza il ruolo determinate dei progettisti nel processo virtuoso di design by doing che ha permesso di ottimizzare i tempi e controllare passo passo la qualità dell’esecuzione. Conoscendo la situazione italiana non posso che concordare. Non a caso, in questo Paese nel quale costruire un’architettura di rango richiede sforzi titanici e rare congiunture astrali, il progetto attende ancora di essere completato con la realizzazione della sala da concerto. Conto di vedere presto l’intero complesso in piena attività.

Immagine: Panorama di Firenze dalla terrazza della cavea all’aperto, foto di Nicolò Orsi Battaglini

Note

1 Cfr. R. Moneo, La solitudine degli edifici, ed. it., Allemandi, Torino 2004.
2 J. N. Baldeweg, La geometria complementare, in «Lotus», n. 73, 1992, p.111.
3 Cfr. C. Conforti, Il Teatro dell’Opera alle Cascine, già Nuovo Parco della Musica e della Cultura a Firenze, in «Casabella», n. 811, 2012, pp.78-81.

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