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Un architetto nella città di Gomorra

Massimo Ilardi
[…] Gira veloce il raccordo anulare come il bordo di un disco volante tagliando perfetta la ruota di sole e d’acqua, di terra e tufo su cui incerta sta Roma dispersa nei laterizi erosi nei travertini stanchi nei suoi oscuri quartieri con finestre a milioni, aperte sull’intatta magia di strade strette e cortili […] (F.Purini, Anulare rap). La rivista “Gomorra” esce per la prima volta in libreria nel febbraio del 1998 e terminerà le sue pubblicazioni nel 2007. Ha due obiettivi: rompere l’autonomia delle discipline di fronte all’insorgere della questione metropolitana che rappresenta una radicale discontinuità rispetto alla città del Moderno (la rivista partiva dalla consapevolezza, tuttora valida, che i singoli specialismi erano incapaci a comprendere il fenomeno e che solo facendoli interagire, pur nella loro autonomia, si poteva raggiungere qualche risultato); ricollocare il territorio al centro della riflessione e dell’analisi teorica. “Il mondo si è fatto metropoli: fuori non c’è più nulla. Questa rivista vuole pensare e lavorare sul territorio metropolitano”: così recita l’editoriale del primo numero. Secondo “Gomorra”, la conseguenza più immediata di questa svolta è il sorgere di una nuova concezione dello spazio: dallo spazio chiuso e delimitato della città a quello infinito, senza luoghi e senza storia, della metropoli del mercato globalizzato. L’individuo, il gruppo, la setta, la banda, e non più il cittadino, diventano le nuove figure socialmente rilevanti. Un individuo mobile, che consuma, che vive al presente, che ritiene i suoi desideri assoluti e inderogabili, che domanda una libertà materiale senza impedimenti e che, infine, disegna, in contrapposizione allo spazio liscio del mercato, il territorio striato della metropoli contemporanea che la rivista rappresenta come un riflesso tormentato e caotico di particolarismi in lotta tra loro che provoca una espansione metropolitana per enclave e crea una socialità diversa rispetto al passato. Un territorio, afferma Franco Purini, che non è in alcun modo fatto “di spazi liquidi, di coinvolgenti simultaneità e di sublimi caoticità […] ma di recinti duri pensati e costruiti per incanalare, deviare, limitare,escludere, costringere.” In questo contesto di forte trasformazione sociale e antropologica, la questione di come collocare il progetto d’architettura diventa centrale per il gruppo di architetti che fanno parte o affiancano la rivista. Tra loro c’è appunto Franco Purini che inizia la sua collaborazione nel 2001. In uno dei suoi primi articoli, sopra già citato e intitolato Recinti duri, scrive: "Se si rimane nel piano del mercato l’architetto non può fare altro che assecondarne i processi; solo se si disloca nell’universo parallelo della rappresentazione è possibile che il necessario corrispondere alla domanda si carichi di sensi alternativi capaci nel tempo di sovvertire la meccanicità lineare del mercato andando oltre di esso nella direzione di una maggiore libertà. In altre parole non è politicamente rilevante per l’architetto muoversi sul piano direttamente economico: è politicamente significativo solo un lavoro sul mercato –e sul territorio- che si faccia carico dell’essenza sovrastrutturale dell’architettura per mettere a nudo il suo genetico non bastare mai a se stessa. […] Il mercato lascia apparentemente una sola libertà, quella di essere consapevoli del suo ruolo. Un ruolo complesso, nel quale a elementi e fattori che accrescono la libertà dell’individuo si affacciano, in una miscela complessa e spesso esplosiva, altri ingredienti che lo rendono sostanzialmente oppressivo. Ovviamente la libertà di essere coscienti di tale oppressione non è sufficiente: perché si verifichi un cambiamento verso una libertà più ampia occorre perturbare il mercato usando il mercato stesso, rovesciando il senso in un attraversamento tenace e illuminato degli infiniti interstizi che i suoi ferrei compartimenti non riescono a eliminare del tutto". (Gomorra, 4, 2002, nuova serie). Un progetto d’architettura, dunque, che deve essere sì espressione di un apparato teorico autonomo ma insieme capace non solo di entrare in tensione con i processi sociali in corso ma di sovvertire l’ossessiva e lineare ripetitività dei meccanismi del mercato. Un progetto politico, allora, che provoca conflitti, anzi diventa una delle condizioni possibili per l’esplodere della conflittualità sul territorio. Non a caso Purini rimane sempre attento alle dinamiche territoriali, non solo perché l’architettura è fortemente piantata sul suolo, non può che esserlo, ma perché ritiene che tra mercato e sua società si insinui prepotentemente l’estensione del territorio come reazione al globalismo da parte di alcuni demoni della modernità tutt’altro che defunti: la politica, il controllo, la libertà, il conflitto: "Se si osservano con una certa attenzione e senza ingenue mitologie nuoviste le relazioni tra le varie parti della città, si può constatare con una certa facilità che in essa è crescente una tendenza all’esclusione reciproca delle sue componenti. Accanto alla crescita esponenziale dei controlli di ogni tipo e a ogni livello che sono resi possibili dall’era dell’elettronica, e che abbattono ogni privatezza, c’è da registrare l’erezione di sempre più numerose e insormontabili barriere topologiche che vanificano qualsiasi ipotesi di spazio pubblico, trasformato in una glaciale parodia nelle tante piazze telematiche che colonizzano l’etere". (La città uguale, Gomorra, 1, 2001, nuova serie). L’obiettivo non è quello di mettersi in concorrenza con i media e con la loro insuperata capacità di costruire spazi virtuali fatti di scintillanti superfici sempre pacificate.L’architettura diventa oscena nel momento in cui pretende di divenire semplice strumento di comunicazione, rifiutando qualsiasi ricerca o teoria per venire incontro ai tempi rapidi di mutazione e di trasformazione che sono propri di una società dell’iperconsumo. Insomma, diventa design, e cioè l'adeguarsi della forma alle emozioni.E questo perché la specificità dei suoi mezzi è del tutto impropria a rappresentare questo scenario. L’obiettivo, secondo Purini, è un altro: quello di ricercare nei “recinti duri” della metropoli contemporanea ciò che stravolge i codici precostituiti e,insieme, ciò che resiste ai flussi e alle polifonie in nome di una libertà tutta materiale: "Il motore immobile della rete […] si affaccia alla coscienza delle moltitudini urbane come un mondo di ectoplasmi paralleli, un catalogo sterminato di mute opportunità, una foresta di segni in cui lo smarrirsi non fa certo pensare a Walter Benjamin né alle esaltanti prospettive profetizzate da Bruno Zevi, ma a una infinita serialità biologica priva di progetto e di misura. E’ necessario, se non altro per elaborare vigorosi anticorpi, sfuggire alla suggestione della virtualità e alla fatale seduzione della fantasia e quindi di ogni immaginario […] per capire realmente cosa sia oggi la città. Bisogna inserire nei meccanismi che la fabbricano elementi di disturbo, fattori di incompatibilità, frammenti di programmatica insensatezza: solo in una strategia movimentista che entri nel cuore della comunicazione urbana per sovvertirla, l’idea di libertà può ritrovare una sua concretezza, anche se relativa". (idem). La degenerazione linguistica dell’architettura a pura comunicazione in un’euforica identificazione con un’estetica del consumo assunta nei suoi aspetti più corrivi, scrive Purini, degrada il progetto a "elemento di un’architettura sociologica schiacciata su una quotidianità mitizzata che finisce con il giustificare ogni deriva del linguaggio verso l’inessenziale o l’incidentale. Il progetto, specialmente il progetto urbano, cede così la ragione stessa della sua esistenza, il suo essere intrinsecamente conflittuale e per questo veramente necessario. (Una città senza tempo". (Gomorra, 5, 2003, nuova serie). L’interlocutore diretto del progetto è invece il livello del politico. Investe direttamente il rapporto tra governanti e governati. E anche se legato al suo contesto sociale, il progetto stesso non si deve confondere con la ‘questione sociale’: "Con l’architettura non si fa politica ma senza politica non si fa architettura […] L’architetto deve dunque, pena la sua marginalità, tessere una rete di relazioni dirette o indirette con la sfera politica. L’architetto libero, che svolge un lavoro in modo autonomo, senza alcun condizionamento, o non esiste o, se esiste, è condannato all’astrattezza dell’accademia, alla pura ricerca teorica o, quando va proprio male, alla frustrazione […] Tuttavia chi scrive, incapace da sempre di costruire relazioni con il potere, è convinto non solo che ogni azione umana è intrinsecamente politica ma che l’unica politica in architettura è quella che va […] nella direzione neo-umanistica della riduzione ai minimi termini di quello scarto tra sapere tecnico e sapere comune che per tutto il Novecento ha opposto come un muro invalicabile le esigenze di tutti alle risposte di pochi. Ridurre questo scarto è un imperativo culturale e insieme etico, dal momento che, come molti sanno ma pochi ammettono, il linguaggio è politico". (Il linguaggio è politico, Gomorra, 12, 2007, nuova serie). Nel percorso di Franco Purini dentro la rivista non si può dimenticare un suo intervento un po’ blasfemo, come afferma l’autore stesso, scritto subito dopo la distruzione terroristica delle Twin Towers a New York. Uno scritto profetico si può definire perché proprio da quegli anni la dimensione estetica comincia a esercitare una sorta di insidiosa supplenza nei confronti del declino di tutto ciò che è indicato dal termine generale di politico: "Inconsciamente consapevole del legame strutturale tra il punto della collisione e il punto di fuga della prospettiva urbana, per definizione il luogo impossibile nel quale qualsiasi visione sprofonda e le cose sono inghiottite nel nulla, ogni spettatore ha colto intuitivamente ciò che distingue l’abbattimento delle Twin Towers dalle altre recenti distruzioni che da Beirut a Sarajevo, da Bagdad a Belgrado hanno segnato gli ultimi sussulti del secondo millennio. Non perché è stato unico; non perché lo si è visto accadere; non perché ha riguardato due tra i noti simboli dell’occidente; non per la sua incredibile ferocia, ma solo per il suo esemplare carattere teorico ciò che si è visto sugli schermi televisivi segna una svolta irreversibile. L’idea ancora rinascimentale di spazio è stata distrutta assieme alle torri, scoprendo di conseguenza un tempo non più univoco ma composto di epoche diverse compresenti e conflittuali. Lo spazio come resto archeologico di una modernità divenuta in un istante, più che storica, antica, spalanca così le vertigini di una nuova estetica post visiva, perché ogni visibile è stato saturato una volta per tutte". (Divina ed estetica, Gomorra, 2, 2001, nuova serie). E così attraverso il primato dell’estetica, da una parte, e il virtuosismo tecnico che si manifesta nel virtuosismo della forma, dall’altra, nel progetto d’architettura la politica e i sui contenuti saranno man mano posti fuori gioco. Un’estetica e una tecnologia che sono capaci di rivelare una precisa condizione culturale, quella dell’uomo interiorizzato e informatizzato. Astrazione inaccessibile e lontano dalla realtà che si muove invece in direzioni tutt’altro che metafisiche.

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